1. La definizione di piccola e media impresa (di seguito, “PMI”) è da sempre tema di particolare interesse, considerata, da un lato, la diffusione di tale modello imprenditoriale nel nostro Paese e, dall’altro, la rilevanza che tale qualificazione assume ai fini della fruizione di svariate misure agevolative di carattere (non solo) fiscale. Ne sono un esempio, in primis, l’agevolazione c.d. Tremonti Ambiente ([1]) nonché i recenti interventi legislativi per fronteggiare la crisi economica derivante dalla diffusione del Covid-19, che assumo la qualificazione di PMI quale presupposto per fruire dei molteplici incentivi ivi previsti, tra i quali il “Fondo di garanzia PMI” istituito dall’art. 49 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. Decreto Cura Italia).

Con il presente contributo si intende, in particolare, soffermarsi su un aspetto non ancora oggetto di particolare approfondimento, ossia quale sia l’ambito di applicazione della deroga ai criteri di “associazione”/“collegamento” prevista nell’ipotesi in cui un’impresa sia soggetta al controllo di un “investitore istituzionale”, che non intervenga nella gestione ordinaria dell’impresa stessa. A quanto consta, infatti, taluni uffici dell’Agenzia delle Entrate ritengono che la sussistenza di un rapporto di controllo “di diritto” sia circostanza di per sé idonea ad escludere la natura di PMI, indipendentemente dalla verifica, in concreto, dell’effettivo esercizio di un potere di ingerenza da parte dell’investitore istituzionale nella gestione dell’ordinaria attività dell’impresa.

Di seguito, premessa una breve esposizione della definizione interna e unionale di PMI, si tenterà di dimostrare come tale impostazione – pur all’apparenza argomentabile in considerazione della discrasia esistente tra la formulazione della normativa interna e di quella unionale – non sia condivisibile alla luce della ratio che giustifica la deroga con riguardo alle relazioni di associazione/collegamento di cui siano parte gli investitori istituzionali.

2. Come noto, con il D.M. 18 aprile 2005 di “Adeguamento alla disciplina comunitaria dei criteri di individuazione di piccole e medie imprese” (di seguito, solo il “Decreto”) l’Italia ha recepito i contenuti della Raccomandazione della Commissione Europea n. 2003/361/CE del 6 maggio 2003 “relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese” (di seguito, solo la “Raccomandazione”).

In particolare, in armonia con quanto previsto dalla citata Raccomandazione, l’art. 2 del Decreto stabilisce che “nella categoria delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese” sonno annoverabili le imprese che presentano taluni requisiti “dimensionali” in termini di occupati (i.e. meno di 250 occupati) e di fatturato (i.e. inferitore a € 50 milioni).  Oltre a tali dati di natura “dimensionale”, il Decreto prevede, anche in tal caso in coerenza con quanto previsto dall’art. 3 della citata Raccomandazione, un ulteriore requisito di “indipendenza/autonomia” dell’impresa. Tale requisito viene, invero, declinato in negativo dall’art. 3, comma 2, del Decreto, il quale stabilisce che sono considerate autonome le imprese che “non sono associate né collegate” ad altre imprese, secondo quanto previsto dai successivi commi 3 e 5.

Il comma 3 del citato art. 3 prevede che si considerano “associate” le imprese tra cui sussiste una relazione tale per cui una di esse detiene “il 25% o più del capitale o dei diritti di voto di un’altra impresa”.

Sempre ai fini della definizione “in negativo” del requisito di indipendenza della piccola e media impresa, il comma 5 dell’art. 3 stabilisce che “sono considerate collegate le imprese fra le quali esiste una delle seguenti relazioni”:

 “a) l’impresa in cui un’altra impresa dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;
b) l’impresa in cui un’altra impresa dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;
c) l’impresa su cui un’altra impresa ha il diritto, in virtù di un contratto o di una clausola statutaria, di esercitare un’influenza dominante, quando la legge applicabile consenta tali contratti o clausole;
d) le imprese in cui un’altra, in base ad accordi con altri soci, controlla da sola la maggioranza dei diritti di voto”.

La qualificazione dell’impresa quale “associata” ovvero “collegata” assume rilievo ai fini del calcolo dei descritti requisiti “dimensionali” previsti dal citato art. 2 del medesimo Decreto. L’art.  3, commi 4 del Decreto stabilisce, infatti, che se “l’impresa richiedente l’agevolazione” è “associata […] ad una o più imprese”, ai dati degli occupati e del fatturato devono essere sommati “i dati dell’impresa o delle imprese situate immediatamente a monte o a valle dell’impresa richiedente medesima”. A sua volta, il successivo comma 6 del medesimo art. 3 stabilisce con riferimento alle imprese “collegate” che “i dati da prendere in considerazione sono quelli desunti dal bilancio consolidato” e che se “le imprese direttamente o indirettamente collegate all’impresa richiedente non siano riprese nei conti consolidati” ai dati dell’impresa richiedente “si sommano interamente i dati degli occupati e del fatturato o del totale di bilancio desunti dal bilancio di esercizio di tali imprese”.

Il Decreto prevede, tuttavia, una serie di deroghe alle fattispecie di associazione/collegamento tra imprese. In primo luogo, è stabilito che la soglia del 25% può essere superata “senza determinare la qualifica di associate” qualora siano presenti talune peculiari “categorie di investitori”, tra cui rientrano, ai sensi della lettera c) del medesimo comma 3, gli “investitori istituzionali” e, cioè, ai sensi dell’art. 2 delle “Note esplicative sulle modalità di calcolo dei parametri dimensionali” in Appendice al Decreto:

 

“i soggetti la cui attività di investimento in strumenti finanziari è subordinata a previa autorizzazione o comunque sottoposta ad apposita regolamentazione, quali, tipicamente le banche, le società di gestione del risparmio (SGR), le società di investimento a capitale variabile (SICAV), i fondi pensione, le imprese di assicurazione, le società finanziarie capogruppo di gruppi bancari, i soggetti iscritti negli elenchi previsti dagli articoli 106 e 107 del Testo Unico Bancario, le fondazioni bancarie e i fondi di sviluppo regionale”.

 

Anche con riguardo alla relazione di “collegamento” sussistente tra le imprese, il Decreto stabilisce una deroga nell’ipotesi in cui detta relazione intercorra con investitori istituzionali. L’art. 3 delle citate “Note esplicative” al Decreto stabilisce, infatti, che qualora i predetti investitori:

“non intervengano direttamente o indirettamente nella gestione dell’impresa in questione, fermi restando i diritti che essi detengono in quanto azionisti o soci, gli stessi non sono considerati collegati all’impresa stessa”.

3. Con riferimento alla fattispecie di esclusione da ultimo delineata, occorre evidenziare che quanto stabilito dall’Appendice al Decreto si discosta, sotto il profilo letterale, dalla disposizione di cui all’art. 3, par. 3, comma 2, della Raccomandazione, la quale stabilisce che:

“Sussiste una presunzione juris tantum che non vi sia influenza dominante qualora gli investitori di cui al paragrafo 2, secondo comma [tra cui gli “investitori istituzionali”] non intervengano direttamente o indirettamente nella gestione dell’impresa in questione, fermi restando i diritti che essi detengono in quanto azionisti o soci”.

Mentre, dunque, il Decreto esclude la relazione di “collegamento” tra imprese in base all’assenza di “intervento nella gestione” da parte dell’investitore istituzionale, la disposizione comunitaria assume il non intervento nella gestione quale indice presuntivo di assenza di “influenza dominante” da parte dell’investitore istituzionale. Valorizzando, dunque, il tenore letterale delle disposizioni in commento potrebbe ritenersi che:

1)  da un lato, l’esclusione prevista dal Decreto sia riferita a tutte le ipotesi di collegamento contemplate dal citato art. 5, comma 3, ivi compresa, dunque, l’ipotesi di controllo “di diritto” conseguente al possesso della maggioranza dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria dell’impresa;

2) di converso, l’esclusione prevista dalla Raccomandazione non operi in relazione a tutte le relazioni di “collegamento” ma solo nell’ipotesi in cui il criterio di collegamento tra l’investitore istituzionale e l’impresa sia individuabile nell’esercizio di un’“influenza dominante” da parte del primo e, dunque, alla sola fattispecie contemplata dalla lett. c) del medesimo art. 3, par. 3, della Raccomandazione (i.e. “un’impresa ha il diritto di esercitare un influenza dominante su un’altra impresa in virtù di un contratto concluso con quest’ultima oppure in virtù di una clausola dello statuto di quest’ultima”).

Sulla base di tale esegesi letterale della Raccomandazione e privilegiando un’interpretazione del citato art. 3 dell’Appendice al Decreto conforme al testo di fonte unionale, si potrebbe, dunque, sostenere che (anche) la norma nazionale debba essere interpretata nel senso che la deroga da essa prevista sia applicabile alle sole ipotesi contemplate dalle trascritte lett. b) e c) del comma 5 dell’art. 3 del medesimo Decreto, in quanto trattasi delle uniche fattispecie che attribuiscono rilievo all’esercizio di un’“influenza dominante” da parte del soggetto collegato all’impresa richiedente l’agevolazione.

Ne deriverebbe l’inapplicabilità della descritta causa di esclusione prevista per gli investitori istituzionali nell’ipotesi in cui tali investitori esercitino un controllo “di diritto” sull’impresa; e ciò, dunque, a prescindere da qualsiasi indagine, in concreto, in merito all’intervento nella gestione dell’impresa medesima da parte dell’investitore medesimo.

4. Tale tesi non pare, tuttavia, convincente. Sotto un primo profilo, infatti, costituisce opinione condivisa in dottrina l’affermazione per cui tutte le fattispecie di controllo contemplate dall’art. 2359 c.c. si caratterizzano per l’esercizio di un’“influenza dominante” su un’altra impresa, la quale costituisce, dunque, il “minimo comune denominatore” di tutte le fattispecie individuate dal legislatore (cfr., sul punto, M. Lamandini, Commento all’art. 2359, in Le società per azioni, Codice civile e leggi complementari, diretto da P. Abbadessa, G.B. Portale, Milano, 2016, p. 750; A. Pavone La Rosa, Le società controllate – I gruppi, in Trattato delle società per azioni, a cura di G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 1991, p. 582 e M.S. Spolidoro, Il concetto di controllo nel codice civile e nella legge antitrust, in Riv. Soc., 1995, p. 479). In tale prospettiva, dunque, ancorché nell’enucleare la fattispecie di controllo “di diritto” (i.e. il possesso della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria) l’art. 2359 c.c. non richiami espressamente il concetto di “influenza dominante”, tale concetto deve intendersi comunque presupposto, in quanto costituente, per definizione, il tratto distintivo della nozione di controllo societario. Del resto, non pare negabile che anche la fattispecie di controllo interno “di diritto” sia caratterizzata – al pari delle altre ipotesi previste dal citato art. 2359 c.c. e, analogamente, dal Decreto – dalla sussistenza, in capo al detentore del pacchetto maggioritario di voti, di un potere di indirizzare e condizionare le deliberazioni dell’assemblea su materie essenziali concernenti l’impresa sociale, quali la nomina e revoca dei componenti degli organi amministrativi e di controllo, la distribuzione dell’utile di esercizio, l’approvazione del bilancio, etc. (cfr. M. Notari, J. Bertone, Società controllate e società collegate, in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, 2008, p. 668).

Tali considerazioni inducono, dunque, a ritenere che, se il potere di esercitare un’“influenza dominante” è l’elemento che accomuna tutte le ipotesi in cui trova attuazione, ex positivo iure, il controllo societario, è irragionevole un’interpretazione delle citate disposizioni di esclusione riferite agli investitori istituzionali contenute nella Raccomandazione e nel Decreto tale per cui, come detto, esse troverebbero applicazione solo nelle ipotesi di controllo “di fatto”. Poiché, infatti, il concetto di “influenza dominante” permea tutte le ipotesi di collegamento previste dalla Raccomandazione e dal Decreto, appare chiaro che l’assenza di intervento diretto o indiretto nella gestione dell’impresa da parte dell’investitore istituzionale non può che costituire circostanza idonea ad escludere tout court l’esistenza di un rapporto di controllo/collegamento tra le società, indipendentemente dalle modalità in cui tale controllo si realizza.

A sostegno della tesi sin qui esposta pare deporre altresì la considerazione, anch’essa condivisa in dottrina (Cfr. M. Lamandini, Commento all’art. 2359, op. cit., p. 747) e in giurisprudenza (Cfr. Cass., sent. 3 maggio 2017, n. 10726), secondo cui la fattispecie di controllo “di diritto” costituisce – a differenza delle altre ipotesi di controllo di fatto, che richiedono un accertamento concreto/fattuale sull’effettivo esercizio di un’influenza dominante su un altro ente societario – una presunzione iuris et de iure di esercizio, da parte del titolare della maggioranza dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria, di un’“influenza dominante” sulla società controllata. In tale prospettiva, pare, dunque, preferibile ritenere che sia proprio tale ultima fattispecie a costituire il vero “terreno d’elezione” delle descritte ipotesi di esclusione previste dalla Raccomandazione e dal Decreto. Tali ipotesi di esclusione paiono, infatti, a ben vedere, volte a “scardinare” – ai precipui fini della valutazione della sussistenza del requisito di “indipendenza/autonomia” della disciplina in materia di PMI – proprio la natura “assoluta” della descritta presunzione, nelle ipotesi in cui essa conduca a qualificare come “collegata” un’impresa che è, invece, sulla base di un’analisi del concreto atteggiarsi dei rapporti con la controllante, “autonoma e indipendente” sotto il profilo della gestione dell’impresa sociale.

Sott’altro profilo, del resto, negare la sussistenza del requisito di indipendenza in capo ad un’impresa controllata da un investitore istituzionale che “non interviene nella gestione della stessa”, in base alla formale titolarità della maggioranza dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria, determinerebbe la frustrazione della ratio di fondo della peculiare disciplina approntata dalla Raccomandazione e dal Decreto con riguardo alle relazioni di associazione/collegamento di cui siano parte gli investitori istituzionali; ratio che risiede nella valorizzazione degli scopi che guidano l’investimento in partecipazioni sociali da parte dell’investitore istituzionale, consistenti non già nell’esercizio, per il tramite di un veicolo societario, di un’attività di impresa ma nella tutela e valorizzazione del proprio patrimonio (cfr. il considerando n. 20 alla precedente Raccomandazione 96/280/CE, che per prima ha delineato la definizione di PMI nonché la “Guida dell’utente alla definizione di PMI” emanata dalla Commissione Europea).

In questo senso, d’altronde, pare debba leggersi il chiarimento da ultimo espresso in subiecta materia dallo stesso Ministero dello Sviluppo Economico, il quale, superando il proprio precedente di prassi supra citato, ha più di recente affermato che:

“al di fuori dell’ipotesi della partecipazione totalitaria, la valutazione della sussistenza di un rapporto di collegamento tra un investitore istituzionale e la società partecipata deve essere valutato alla luce del criterio di un’influenza dominante che si realizza attraverso un intervento diretto o indiretto nella gestione dell’impresa, senza che rilevi in modo decisivo l’esercizio dei diritti di voto quale che ne sia la percentuale rispetto al capitale. In altre parole, l’esercizio dei diritti di cui si compone la partecipazione sociale ordinaria, ivi compreso il diritto di voto, non costituisce di per sé un comportamento che può essere qualificato in termini di intervento diretto o indiretto nella gestione dell’impresa. L’intervento diretto o indiretto nella gestione dell’impresa deve essere desunto da altri indici e in particolare da tutte quelle situazioni in cui l’investitore non si preoccupa semplicemente di difendere il valore patrimoniale della partecipazione ma entra in modo determinante nell’ordinaria gestione dell’impresa” (cfr. diciassettesima riunione della Commissione del 15 dicembre 2015, risposta n. 62).

In conclusione, pare preferibile ritenere che l’esclusione prevista dall’art. 3, par. 3, comma 2 della Raccomandazione e dall’art. 3 dell’Appendice al Decreto sia “astrattamente” applicabile – salva, ovviamente, la verifica “in concreto” circa il non intervento diretto o indiretto nella gestione dell’impresa – anche all’ipotesi di collegamento tra investitore istituzionale e impresa richiedente l’agevolazione derivante dal possesso della maggioranza dei voti nell’assemblea ordinaria.

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[1] Trattasi, come noto, dell’agevolazione introdotta dall’art. 6, commi da 13 a 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, destinata alle “piccole e medie imprese”, che stabilisce la non concorrenza alla formazione del reddito imponibile della “quota di reddito […] destinata a investimenti ambientali”.

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