29/06/2021

A scioglimento del contrasto interpretativo insorto sul tema, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 8500 del 25 marzo 2021) – nell’alternativa tra un orientamento più conservativo dell’interesse erariale ed un altro maggiormente volto a preservare gli interessi della certezza e del consolidamento dei rapporti giuridici – ha inteso privilegiare la prima opzione ermeneutica, sancendo che le componenti di reddito ad efficacia pluriennale sono sempre rettificabili dal Fisco.

E’ stato, in particolare, statuito che l’Amministrazione finanziaria può sempre rettificare la singola componente di reddito determinata dall’onere pluriennale, anche nell’ipotesi in cui l’anno nel quale detto onere è maturato, è stato iscritto per la prima volta in bilancio ed ha prodotto i suoi primi riflessi in sede dichiarativa non sia ormai più accertabile.

Secondo i Giudici di legittimità la successiva possibilità di accertamento da parte dell’Agenzia non può essere preclusa dalla circostanza che il fatto costitutivo del costo pluriennale si sia formato in una annualità ormai non più accertabile a causa della decadenza dei termini ordinari per l’accertamento.

Nucleo fondativo del ragionamento della Suprema Corte è quello secondo il quale

la “definitività”, in conseguenza del mancato accertamento, della dichiarazione di prima emersione del componente pluriennale non porta in sé il diverso effetto della “preclusività” di sindacato per un periodo d’imposta successivo; anzi, per meglio dire, non produce proprio alcun effetto di accertamento, il quale può derivare solo dalla positiva rispondenza alla realtà di quanto dichiarato”.

Ogni rateo del costo infatti, ad avviso degli Ermellini, ha un’autonoma rilevanza rispetto al periodo di imposta sul quale incide.

In questo modo l’accertamento deve essere possibile su ogni annualità, anche con riguardo al fatto costitutivo dell’elemento pluriennale dedotto e non soltanto alla correttezza della singola quota annuale di deduzione.

Di particolare interesse in questa sede è la specificazione secondo la quale

Il principio rileva in ogni situazione, non solo per le componenti reddituali del reddito d’impresa (accantonamenti, ammortamenti), ma anche per:

  • il controllo formale scaturente da spese che danno origine a detrazioni che vanno dilazionate su più anni;
  • crediti di imposta, come ad esempio ricerca e sviluppo, che possono avere una dimensione pluriennale;
  • riporto a nuovo delle perdite di impresa”.

Vengono, in particolare, in rilievo le agevolazioni previste dall’art. 119, d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. Superbonus 110%).

Come ben noto, tale specifico incentivo (laddove non si opti per la possibilità di richiedere lo sconto in fattura o per la cessione del relativo credito fiscale) prevede la possibilità per il contribuente di fruire di una detrazione di imposta pari al 110% della spesa sostenuta per l’intervento, da utilizzare in sede di dichiarazione dei redditi ordinariamente per il tramite di 5 distinti ratei annuali.

In applicazione del principio statuito dalle Sezioni Unite, il mancato accertamento della prima dichiarazione dei redditi relativa all’anno del sostenimento della spesa, nella quale la detrazione viene fruita per la prima volta, non compromette l’attività accertativa degli uffici dell’Amministrazione finanziaria sulle annualità successive.

Più precisamente le Sezioni Unite affermano che

nel caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale per ragioni diverse dall’errato computo del singolo rateo dedotto e concernenti invece il fatto generatore ed il presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, ex articolo 43 D.P.R. 600/1973, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente pluriennale è indicato, non già in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio”.

E’ facile comprendere come gli effetti di tale opzione siano particolarmente gravosi per i contribuenti perché determinano un onere di conservazione del corredo documentale ascrivibile all’intervento che può raggiungere tempistiche e complessità eccezionalmente dilatate, in spregio del principio di certezza dei rapporti giuridici, come anche del diritto di difesa.

Il punto è chiaro alla stessa Suprema Corte:

Il contribuente deve conservare la documentazione giustificativa ad esempio della spesa sino allo spirare del termine di decadenza dell’ultima annualità, quand’anche fossero decorsi i dieci anni ex art. 8 della L. 212/2000”.

Parziale correttivo di tale evidente criticità è contenuto nel successivo sviluppo argomentativo della decisione, laddove viene comunque specificato che

“il tema della conservazione delle scritture … non coincide appieno con quello dell’esercizio del diritto di difesa e della prova in giudizio, nel senso che il contribuente deve essere ammesso a fornire in altro modo la prova posta a suo carico, in tutti quei casi nei quali vi siano in concreto elementi per ritenere che egli si sia legittimamente privato, oltre il termine decennale, della documentazione fiscale”.

Ci si deve ulteriormente richiamare al principio più generale codificato all’art. 6, comma 4, della legge n. 212/2000, secondo il quale al contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso dell’amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal medesimo contribuente.

In particolare, il comma 2 dell’art. 18 della l. n. 241/1990 – richiamato dallo stesso art. 6 – stabilisce che

“I documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, necessari per l’istruttoria del procedimento, sono acquisiti d’ufficio quando sono in possesso dell’amministrazione procedente, ovvero sono detenuti, istituzionalmente, da altre pubbliche amministrazioni. L’amministrazione procedente può richiedere agli interessati i soli elementi necessari per la ricerca dei documenti”.

Il comma 3, a sua volta, prevede che

“Parimenti sono accertati d’ufficio dal responsabile del procedimento i fatti, gli stati e le qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare”.

Tale complesso di norme fissa un precetto, valido per la generalità dei procedimenti amministrativi governati da un’Autorità nazionale, che costituisce, per la consolidata giurisprudenza di legittimità, “espressione dei principi generali di buona fede, di collaborazione tra cittadini e pubblico potere e di migliore andamento della finanza pubblica ed è, perciò, applicabile, sempre secondo la Suprema Corte, anche al processo tributario” (si vedano, a tale proposito, le sentenze della Cassazione nn. 958/2015, 21956/2010, 21209/2004 e 22775/2009). La sua applicazione si risolve, perciò, nella trasposizione (inversione) dell’onere di produzione di documenti probatori dal soggetto originariamente gravato dall’onere dimostrativo all’Amministrazione finanziaria che di tali documenti dispone.

Si confida conclusivamente che, sulla base degli spunti da ultimo evidenziati, le conseguenze più sfavorevoli dell’orientamento fatto proprio dalle Sezioni Unite della Suprema Corte possano trovare una parziale mitigazione nell’applicazione pratica dei predetti principi, con effetti maggiormente tutelanti la posizione dei contribuenti.

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