28/09/2020

La Corte Costituzionale, con la sentenza 21 luglio 2020 n. 155, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma statale che stabilisce l’obbligo di destinare alle Province e alle Città metropolitane almeno il 60% dei canoni di concessione delle grandi derivazioni idroelettriche.

Il ricorso, promosso dalla Regione Toscana, riguarda nello specifico le disposizioni contenute nell’art. 11-quater del d.l. 14 dicembre 2018 n. 135, conv. in l. 11 febbraio 2019 n. 12, nella parte in cui, introducendo i commi 1-quinquies e 1-septies nell’art. 12 del d.lgs. n. 79/1999, hanno previsto che il suddetto canone di concessione corrisposto alle Regioni, così come il canone aggiuntivo dovuto dal concessionario scaduto nelle more della nuova assegnazione, siano rispettivamente destinati, per almeno il (o per un importo non inferiore al) 60 per cento, alle Province e alle Città metropolitane il cui territorio è interessato dalle medesime derivazioni.

Le disposizioni impugnate sono state censurate in riferimento a diversi parametri costituzionali; segnatamente gli artt. 117, co. 3, 118 e 119, cc. 1, 2 e 4, della Costituzione.

La Consulta, dal canto suo, ha ritenuto fondate le questioni sollevate dalla Regione ricorrente su entrambe le disposizioni impugnate e per violazione di tutti i parametri evocati.

In particolare, la Corte, in linea con la sua costante giurisprudenza in materia, ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in quanto la determinazione e la riscossione dei canoni versati dai concessionari di derivazioni idroelettriche attengono alla materia “produzione, trasporto e distribuzione dell’energia” e, come tale, rientrano nel novero delle competenze legislative concorrenti tra Stato e Regioni.

Di talché, la previsione di un quantum obbligatorio da devolvere agli enti territoriali costituirebbe una norma connotata da un grado di pervasività e di dettaglio da essere preclusa allo Stato, in virtù dei principi afferenti al riparto delle competenze.

D’altronde, la Corte ha sottolineato che la natura di tali norme non muta – nel senso di collocarle a un livello di principio – per la sola circostanza che esse indichino una percentuale minima, consentendo così, ma solo in astratto, una diversa determinazione regionale. Tale scelta, infatti, pur concepibile, si potrebbe orientare esclusivamente verso la destinazione ai suddetti enti di una quota addirittura maggiore del canone e del canone aggiuntivo, con un’ulteriore riduzione delle entrate regionali.

Pertanto, anche in virtù di tale ragione, la Corte ha altresì riconosciuto la lamentata violazione degli artt. 118 e 119 della Costituzione.

Dall’applicazione delle suddette norme, infatti, risulterebbero più che dimezzati gli introiti regionali derivanti dalle concessioni in questione, con l’effetto di porre a rischio il pieno e corretto esercizio delle funzioni amministrative regionali in materia.

Il tutto, tra l’altro, in favore di enti territoriali sul punto privi di competenze funzionali o gestionali e, quindi, in contrasto con i principi di autonomia finanziaria delle Regioni e di corretta ripartizione delle risorse, con la necessaria corrispondenza tra queste ultime e le relative funzioni amministrative.

Da ultimo, a conferma di tali assunti, la Corte si è soffermata sull’impossibilità di ricondurre tali disposizioni ad altri ambiti di competenza implicanti una riserva di legislazione in favore dello Stato; e segnatamente la “tutela dell’ambiente” – che la giurisprudenza costituzionale non ha mai considerato pertinente in tema di canoni di concessioni idroelettriche –, la “tutela della concorrenza” – la cui influenza nella materia in questione si ritiene sia limitata alla sola definizione dei “criteri generali” che

condizionano la determinazione, da parte delle Regioni, dei valori massimi dei canoni; nonché il “coordinamento della finanza pubblica”.

A tal proposito, la Consulta ha escluso, in particolare, qualsiasi equiparazione tra i canoni demaniali de quibus ed i cosiddetti “sovracanoni”. Quest’ultimi, infatti, si distinguono per la finalizzazione (i.e., il progresso economico e sociale delle popolazioni sulle quali impatta la grande derivazione) e la natura giuridica, non ponendosi in relazione sinallagmatica con il rilascio della concessione e atteggiandosi piuttosto a “prestazione patrimoniale imposta a fini solidaristici”, non correlata alla utilizzazione dell’acqua pubblica.

Per le suddette ragioni, la Corte Costituzionale ha dichiarato

“l’illegittimità costituzionale dell’art. 11-quater del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135 (Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, nella legge 11 febbraio 2019, n. 12, che ha inserito i commi 1-quinquies ed 1-septies nell’art. 12 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica), limitatamente, nel comma 1-quinquies, al periodo «Il canone così determinato è destinato per almeno il 60 per cento alle province e alle città metropolitane il cui territorio è interessato dalle derivazioni», e, nel comma 1-septies, al periodo «tale canone aggiuntivo è destinato per un importo non inferiore al 60 per cento alle province e alle città metropolitane il cui territorio è interessato dalle derivazioni».

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