28/01/2021

Attraverso la sentenza n. 25608 del 12 novembre 2020 la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che il termine biennale di decadenza individuato dall’art. 14, comma 2, del D.Lgs. n. 504/995 (cd. T.U.A.), utile per richiedere l’eventuale rimborso della maggiore accisa assolta sul consumo di energia elettrica, non decorre dalla data del singolo pagamento in acconto, ma dalla presentazione dell’ultima (e definitiva) dichiarazione annuale di consumo.

Ciò in quanto il saldo creditorio non può ritenersi maturato − e non è, pertanto, reclamabile − prima della chiusura del rapporto tributario, circostanza, quest’ultima, che si verifica solo al momento della presentazione della dichiarazione annuale con cui viene operata la liquidazione definitiva del debito impositivo.

Il principio di diritto affermato con la sentenza in commento non è certo nuovo nei pronunciamenti della Corte, ma, anzi, conferma di quello che, ad oggi, può ritenersi un orientamento in fase di consolidamento.

Sono ormai numerosi, infatti, i precedenti di legittimità intervenuti sul tema, i quali hanno contribuito, soprattutto, al superamento di un significativo contrasto giurisprudenziale formatosi in seno alla Corte di Cassazione, relativo alla corretta individuazione della data di decorrenza del termine decadenziale di due anni per l’esercizio del diritto al rimborso del credito di accisa sul consumo di energia elettrica.

 

La fattispecie esaminata dalla Corte trae origine da un’istanza presentata dal contribuente nel corso dell’anno 2013, con la quale era chiesto il rimborso dei maggiori importi versati a titolo di accisa sul consumo di energia elettrica nell’anno 2009 ed esposti, per la prima volta, nella dichiarazione presentata nell’anno 2010.

Poiché tale credito non risultava integralmente compensabile con i successivi versamenti d’imposta, in conformità con quanto stabilito dall’art. 56, comma 1, del TUA − norma che disciplina il “versamento dell’accisa” – lo stesso veniva riportato in avanti, fino all’ultima dichiarazione relativa al 2012. E’ per tali ragioni, quindi, che il fornitore domandava nell’anno 2013 la restituzione all’Agenzia delle Dogane del complessivo credito maturato.

 

L’Ufficio interpellato opponeva il proprio diniego alla richiesta di rimborso avanzata dalla Società – poi ricorrente in Cassazione − per la quota parte di credito maturata nel 2010, poichè riteneva tardiva l’istanza presentata nel 2013 rispetto al termine biennale di decadenza previsto dall’art. 14 comma 2 del DLgs. 504/95 (TUA).

Ciò in quanto, secondo la tesi interpretativa sostenuta dall’Amministrazione doganale, il dies a quo del termine andrebbe fatto decorrere dalla data di presentazione della dichiarazione che conteneva − e da cui emergeva − per la prima volta il credito (ossia quella del 2010) e non poteva essere spostato in avanti mediante il riporto nelle dichiarazioni di consumo successive, fino all’ultima e definitiva (ossia quella del 2012).

 

La vicenda sottoposta all’esame della Suprema Corte ha costituito un’occasione preziosa per tornare a ribadire un principio di diritto più volte già espresso, come sopra anticipato, da precedenti pronunce di analogo tenore recentemente intervenute sul tema in questione (Cass. nn. 11813/2020; 16261/2019; 3051/2019), le quali hanno respinto la ricostruzione interpretativa sostenuta dall’Amministrazione doganale, in un primo momento avallata da alcune − e più risalenti − pronunce di legittimità che, ormai, possono ritenersi superate (Cass. nn. 24056/2011 e 3471/2014).

Di fondamentale importanza per comprendere al meglio le conclusioni rassegnate dalla pronuncia in commento, e, più in generale, le ragioni per cui la più attuale giurisprudenza di legittimità individui il dies a quo del termine di decadenza biennale per la proposizione dell’istanza di rimborso della maggiore accisa assolta nel momento in cui viene presentata l’ultima  dichiarazione annuale di consumo, è l’analisi preliminarmente svolta dalla Corte di Cassazione in ordine al meccanismo di versamento delle accise.

Al riguardo, viene specificato e rappresentato come – ai sensi dell’art. 56 TUA e, anche, dell’art. 26 TUA, che, pur contemplando le particolari disposizioni vigenti in materia di gas naturale, presenta identica struttura normativa − il pagamento dell’accisa deve essere effettuato in rate di acconto mensili entro la fine di ciascun mese, calcolate sulla base dei consumi dell’anno precedente, mentre il versamento a conguaglio è effettuato entro il mese di febbraio dell’anno successivo a quello cui si riferisce. Da ciò ne consegue che le rate mensili di versamento dell’accisa non corrispondono ad autonomi adempimenti di autonomi debiti, bensì a modalità di adempimento di un unico debito, frazionato, appunto, in più rate (in tal senso, sono richiamati i precedenti Cass. n. 3051/2019 e Cass. n. 9238/2013).

Da questa impostazione ne discende, secondo il ragionamento della Corte, che, laddove in sede di conguaglio gli acconti mensilmente versati risultino – come nel caso di specie – maggiori rispetto a quanto effettivamente dovuto, il credito che ne emerge può andare a sommarsi con il credito d’imposta relativo all’anno successivo. Ne viene tratta l’ulteriore conseguenza che il saldo creditorio costituisce un nuovo credito rispetto a quelli precedentemente maturati.

 Tale principio trova conferma, quindi, nel fisiologico meccanismo di versamento dell’imposta, il quale prevede che le somme corrisposte in eccesso siano detratte dai successivi versamenti di acconto, fino alla conclusione del rapporto tributario, che coincide con la conclusione della somministrazione (art. 56 comma 1 del TUA). Per l’effetto, il credito, riportato in avanti e detratto ex lege dai successivi acconti, rappresenta una modalità di pagamento a tutti gli effetti e non realizza un “indebito pagamento” durante il rapporto di fornitura.

 

A tale proposito, è interessante notare come, prima ancora di enunciare il principio di diritto che emerge dalle premesse appena svolte, la sentenza esaminata operi un espresso rinvio ai precedenti Cass. n. 16261/2019 e Cass. 11813/2020 sopra citati − intervenuti con riferimento a fattispecie del tutto analoghe a quelle trattate – e ciò non solo al fine di confermare e dare continuità ai contenuti in essi già espressi, ma, soprattutto, per un’analisi più doviziosa e per un inquadramento più ampio in termini sistematici dell’istituto del rimborso dell’imposta, sicuramente utile per meglio comprendere il percorso logico argomentativo sotteso alle conclusioni rassegnate dall’attuale orientamento di legittimità.

 

Particolarmente significativa sul punto è l’articolata sentenza Cass. 18 giugno 2020, n. 11813, nella quale sono estesamente espresse le plurime considerazioni che hanno indotto l’attuale giurisprudenza a definire l’ambito applicativo dell’art. 14 TUA nei termini e nei modi qui esaminati.

 

Nella citata pronuncia, viene, innanzitutto, precisato che oggetto del rimborso è, in linea generale, un indebito, che nella sua accezione più lata si configura quando la prestazione eseguita (ossia il pagamento dell’imposta) non era dovuta.

Viene, però, specificata anche la distinzione tra indebito originario e indebito sopravvenuto, laddove, nel primo caso, il pagamento era sin dall’origine non dovuto (in tutto o in parte) perchè ne erano carenti i presupposti, mentre, invece, nel secondo, il versamento − che è inizialmente legittimo − si rivela, per un fatto sopravvenuto, non più giustificato.

E’ proprio a questa seconda fattispecie che, secondo al Corte, sarebbero riconducibili i rimborsi derivanti dalle eccedenze “da dichiarazione”, ai quali la nozione di “pagamento indebito” poco si attaglia e che, pertanto, sono soggetti ad una differenziazione di regime giuridico.

In tali evenienze, infatti, il pagamento dell’imposta avviene anticipatamente e in via frazionata (o mediante acconti) rispetto al maturare (e alla liquidazione) dell’imposta complessivamente dovuta, poiché è solo a posteriori, ossia al momento della dichiarazione finale, che diviene possibile verificare se la somma dei versamenti sia pari o superiore al dovuto. L’eccedenza versata non costituisce, inoltre, il frutto di un fatto “nuovo” sopravvenuto, ma è il risultato necessario che deriva dalla esatta applicazione della legge e del meccanismo di riscossione.

Ebbene, in tali casi, il carattere ricorrente e procedimentalizzato dell’imposizione e il fisiologico transito dell’eccedenza in dichiarazione comportano che l’istanza di rimborso sia solo uno dei possibili strumenti, non necessariamente quello prioritario, per soddisfare l’esigenza di riequilibrare la riscossione. Ecco, pertanto, che, in queste ipotesi, in caso di eccedenza è lasciata al singolo contribuente la scelta tra rimborso e riporto alla dichiarazione successiva.

Dalla complessiva lettura della richiamata disciplina, la Cassazione ne conclude schematicamente che:

– “il contribuente, a fronte di una eccedenza nei versamenti diretti, può riportare il credito all’annualità successiva o, in alternativa, chiedere il rimborso”;

– “la prima opzione comporta una sostanziale rimessione a nuovo del credito e, quindi, in caso di incapienza dell’imposta rispetto al credito, una nuova alternativa tra riporto all’anno ancora successivo e istanza di rimborso, i cui termini ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38, decorrono, in questo caso, non dall’originario versamento ma dal nuovo saldo”;

– “tale possibilità, tuttavia, è ancorata alla corretta osservanza degli adempimenti imposti dal legislatore per la regolare fruizione del meccanismo di riporto delle eccedenze; in assenza il credito mantiene la sua dimensione originaria e può essere sì richiesto a rimborso, ma con termine per l’istanza che decorre dal momento dell’originario versamento”.

All’interno di questa cornice sistematica si colloca anche la disciplina delle accise, di cui il meccanismo strutturale viene così sintetizzato dal Collegio:

– “l’imposta è versata in acconti mensili parametrati in base al consumo dell’anno precedente”;

– “con la dichiarazione annuale viene determinato, a consuntivo, il consumo effettivo dell’intera annualità e si procede a conguaglio tra quanto versato e quanto effettivamente dovuto”;

– “in caso di pagamenti in misura inferiore, occorre procedere al pagamento della maggiore somma”;

– “in caso di pagamenti in misura superiore, sorge un credito”;

– “il credito va detratto dal versamento (o dai versamenti) successivi”.

Il credito risultante dalla dichiarazione annuale di consumo, quindi, indica, in realtà, solo che gli acconti versati sono stati maggiori a quanto effettivamente consumato e non integra una autonoma obbligazione rispetto a quella originaria.

Proprio per questa ragione, tale credito non può essere qualificato come indebito in senso stretto ed è, per contro, riconducibile alla struttura dell’eccedenza o rimborso “da dichiarazione”, in quanto nasce dunque in via fisiologica, e non per patologie. Ed infatti, pur lasciando emergere la liquidazione compiuta in dichiarazione una minore entità del debito verso l’Amministrazione Finanziaria rispetto a quanto assolto mensilmente in via provvisoria, resta il fatto che i versamenti fossero originariamente dovuti.

In questa peculiare ipotesi, alla chiusura annuale del periodo si determina un nuovo saldo creditorio o debitorio, che va a costituire un nuovo credito o debito rispetto a quelli precedentemente maturati e che si protrae o fino all’esaurimento del credito, ovvero fino alla definizione del rapporto tributario, quindi fino alla presentazione dell’ultima dichiarazione di consumo.

Per la Corte, quindi, è questa la circostanza che identifica il momento di definitiva cristallizzazione dei rapporti di debito/credito, cosicchè è da questa che decorre il termine biennale per la presentazione dell’istanza di rimborso. Anteriormente a tale data, la richiesta di rimborso non appare, invece, né possibile, né utilmente proponibile.

Le conclusioni rassegnate dalla pronuncia in tema di accise, ex art. 26 (nonchè 56) TUA, sono quindi le seguenti:

  1. a) “il credito maturato per eccedenza dei versamenti non incorre in alcuna decadenza ove regolarmente riportato nelle successive dichiarazioni”;

  2. b) “è preclusa, fino alla chiusura del rapporto medesimo, la possibilità di ottenere il rimborso del credito stesso, sicchè non può essere accolta la richiesta anticipata di rimborso”;

  3. c) “è consentito, senza che sia rilevabile od eccepibile alcuna decadenza, il trasferimento contabile del credito ad altra posizione gestita dal medesimo contribuente (ovvero ad altro contribuente parimente titolare di impianto nel caso di cessione ai sensi del M. n. 689 del 1996, ex art. 6, comma 5)”.

Una volta, invece, che il rapporto si sia definito, il credito maturato per eccedenza dei versamenti compiuti nel corso del rapporto integra un indebito oggettivo, rispetto al quale la parte può chiedere il rimborso (o il trasferimento contabile del credito) con istanza che deve essere presentata entro il termine biennale di decadenza decorrente dall’ultima (e definitiva) dichiarazione di consumo.

Alla luce di tutte le considerazioni qui appena richiamate e contenute nella pronuncia Cass. 11813/2020, a cui espressamente si fa rinvio, con la sentenza qui in commento viene rassegnato e ribadito il principio di diritto per cui:

“in tema di accise sull’energia elettrica, il saldo creditorio che matura al momento della presentazione della dichiarazione annuale – costituendo una modalità di pagamento dell’imposta, in quanto detratto ex lege dai successivi versamenti di acconto – non è reclamabile prima della chiusura del rapporto tributario, con conseguente decorrenza del termine biennale di decadenza D.Lgs. n. 504 del 1995 (cd. T.U.A.) ex art. 14, comma 2, per il rimborso dell’eventuale credito di imposta dal momento della presentazione dell’ultima (e definitiva) dichiarazione”.

Il fornitore che, quindi, richieda il rimborso delle maggiori imposte versate in acconto non incorre in alcuna decadenza qualora la relativa istanza sia depositata entro due anni dalla presentazione dell’ultima dichiarazione annuale, che segna la conclusione del rapporto di imposta. Per contro − e a differenza di quanto sostenuto dall’Amministrazione doganale − il termine decadenziale non decorre affatto dalla dichiarazione nella quale emerge per la prima volta il credito.

Tali conclusioni appaiono, ad avviso di chi scrive, pienamente condivisibili e ciò per una pluralità di ragioni.

Innanzitutto, in via generale, l’acconto non ha affatto la medesima natura del conguaglio. A differenza del conguaglio, che è “imposta”, l’acconto non può essere qualificato come tale se non a posteriori − ossia dopo la presentazione della dichiarazione − e non può esserlo perché, al momento in cui viene versato, non si riferisce in alcun modo all’obbligazione tributaria a cui si ricollegherà, invece, l’eventuale saldo. Anche dalla lettura dell’art. 26, comma 8, TUA emerge chiaramente che l’acconto non è parametrato al presupposto di fatto del tributo che viene realizzato nell’esercizio in corso, essendo, invece un versamento parametrato ai consumi dell’anno precedente.

In secondo luogo, la soluzione a cui è pervenuta la Cassazione nella sentenza in esame è in linea con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione. Il precedente orientamento giurisprudenziale, infatti, faceva, al contrario, perdere al fornitore la possibilità di ottenere la restituzione di quanto indebitamente versato al Fisco, posto l’obbligo, in costanza di rapporto, di utilizzo del credito in compensazione.

Il principio enunciato, inoltre, appare coerente, anche, con la disciplina vigente in materia di imposte sui redditi; in tale ambito, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che il termine di decadenza per il diritto al rimborso previsto dall’art. 38 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602

“decorre, nella ipotesi di effettuazione di versamenti in acconto, dal versamento del saldo solo nel caso in cui il relativo diritto derivi da un’eccedenza degli importi anticipatamente corrisposti rispetto all’ammontare del tributo che risulti al momento del saldo complessivamente dovuto, oppure rispetto ad una successiva determinazione in via definitiva dell'”an” e del “quantum” dell’obbligazione fiscale, mentre non può che decorrere dal giorno dei singoli versamenti in acconto nel caso in cui questi, già all’atto della loro effettuazione, risultino parzialmente o totalmente non dovuti, poichè in questa ipotesi l’interesse e la possibilità di richiedere il rimborso sussistono”.

In tale prospettiva, pertanto, appare del tutto coerente che i termini decadenziali per il rimborso inizino a decorrere dal versamento dell’acconto laddove vi sia un pagamento che è indebito per violazione delle regole sull’acconto (che ne disciplinano i termini, le modalità di versamento e di calcolo).

Diversamente, se il diritto al rimborso scaturisce non dalle regole sull’acconto in sé, ma dalla commisurazione tra la somma di denaro versata in acconto e l’imposta dovuta, in questo caso è evidente che il diritto al rimborso non può che sorgere al momento della presentazione della dichiarazione annuale. E’ solo al momento della conclusione del rapporto tributario, quindi, che il contribuente potrà, entro due anni dall’ultima dichiarazione annuale, chiedere il rimborso in presenza di un conguaglio a credito.

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