1. La Corte Costituzionale, interrogata da diversi giudici, è chiamata a valutare la rispondenza a Costituzione del complessivo sistema di rimborso dell’addizionale provinciale alle accise sull’energia elettrica.

Dopo il Collegio Arbitrale di Vicenza, che ha adito il Giudice delle Leggi sulla legittimità dell’art. 14 del TUA (con ordinanza commentata in altro contributo su questo sito), anche il Tribunale civile di Udine, con ordinanza del 30 dicembre 2021, ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale «dell’art. 6, commi 1, lett. c), e 2, del decreto legge n. 511/1988 (convertito in legge n. 20/1989), nel testo modificato dall’art. 5, comma 1, del decreto legislativo n. 26/2007, per il periodo di sua vigenza successivo al 1° gennaio 2010 e fino alla sua abrogazione, per contrasto con l’art. 117, comma primo, Cost. e l’art. 1, par. 2 della Direttiva comunitaria n. 2008/118/CE» (così nel P.Q.M. della predetta ordinanza).

I profili evidenziati dal Tribunale sono diversi da quelli sottolineati dal Collegio Arbitrale di Vicenza, ma – come si vedrà oltre – i due procedimenti di rimessione presentano profili di connessione.

Senza tornare sulla genesi del rimborso dell’addizionale provinciale, già esaminato in altro contributo su questo sito, vale solo ricordare che con l’art. 6 del D.L. 28 novembre 1988, n. 511, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 280 del 29 novembre 1988, è stata istituita l’addizionale provinciale all’accisa sull’energia elettrica di cui agli articoli 52 e seguenti del T.U. n. 504/1995. La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza 23 ottobre 2019, n. 27101, ha riconosciuto l’incompatibilità del predetto art. 6, D.L. n. 511/1988 con l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea dell’art. 1, paragrafo 2 della direttiva n. 2008/118/CE. In particolare, la Suprema Corte ha rilevato che «né  la disposizione di cui all’art. 6, né  il  decreto  11  giugno  2007  del  capo dipartimento per le politiche fiscali del Ministero  dell’economia  e  delle finanze previsto dal comma 2 del medesimo articolo chiariscono in alcun modo le specifiche finalità che le addizionali dovrebbero  andare  a  soddisfare, non essendo in armonia con il diritto unionale [per come interpretato dalla Corte di Giustizia]  la  destinazione  di  tali addizionali a semplici finalità di bilancio».

In tale cornice si innesta la norma della cui legittimità costituzionale il Tribunale di Udine dubita. Più in dettaglio, secondo l’impostazione del Tribunale remittente, il giudice ordinario che conosce del rapporto civilistico tra fornitore e acquirente non può disapplicare la norma istitutiva dell’addizionale per contrarietà alla direttiva n. 2008/112/CE, sul presupposto che tale direttiva ha solo un effetto verticale (nei rapporti da far valere contro lo Stato), e non orizzontale (nei rapporti tra privati). Una Direttiva non può, infatti, essere invocata in un contenzioso tra privati, tanto meno ai fini della disapplicazione di norme interne, in quanto è una fonte normativa priva di efficacia diretta nei rapporti tra privati, dalla quale dunque non possono insorgere diritti ed obblighi reciproci in capo ai singoli.

Da tale premessa, il Tribunale fa discendere la necessaria remissione della questione alla Corte Costituzionale, affinché si pronunci sull’incostituzionalità dell’art. 6 cit per contrarietà all’art. 117 Cost. ed espunga definitivamente la norma dall’ordinamento con effetti erga omnes.

2. La rimessione del Tribunale genera più di un dubbio.

In primo luogo, l’intero sistema del rimborso delle addizionali qui in esame può essere agevolmente oggetto di un’interpretazione conforme agli artt. 3 e 117 Cost.: interpretazione che conduce alla conclusione che l’acquirente finale, nella fattispecie qui in esame, ha titolo ad azionare il rimborso direttamente nei confronti dello Stato secondo due diverse modalità:

  • nella forma di rimborso dell’imposta;
  • nella forma di risarcimento del danno.

Tale osservazione non è priva di rilevanza, posto che la Corte Costituzionale, nell’esaminare il merito delle questioni sottoposte al suo esame, è a sua volta «tenuta a verificare l’esistenza di alternative ermeneutiche, che consentano di interpretare la disposizione impugnata in modo conforme alla Costituzione» (Corte Cost., sent. n. 69 del 2017).

2.1. – Quanto alla prima soluzione (rimborso dell’imposta), vale ricordare che se l’acquirente finale non ha la possibilità – giuridica o di fatto – di esercitare l’azione di rimborso nei confronti del fornitore, e cioè nei casi in cui «il rimborso da parte del soggetto passivo risultasse impossibile o eccessivamente difficile» (ibidem, punto 28), lo stesso acquirente finale deve considerarsi titolato ad azionare il rimborso «direttamente nei confronti delle autorità tributarie» (ibidem, punto 28).

I Giudici unionali forniscono anche gli strumenti ermeneutici per individuare le fattispecie nelle quali il rimborso azionato dall’acquirente finale presso il fornitore deve considerarsi impossibile o eccessivamente difficile. Affermano infatti che tale indagine, che risponde al principio di effettività, deve essere svolta «tenendo conto del ruolo di detta disposizione nell’insieme del procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso, dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali. Sotto tale profilo si devono considerare, se necessario, i principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento» (CGUE, 29 giugno 2019, C/407/18, punto 48 e giurisprudenza ivi citata).

La menzionata giurisprudenza comunitaria offre dunque un appiglio ermeneutico sufficiente per interpretare il sistema del rimborso delle addizionali in conformità con la Costituzione, senza alcuna necessità di dichiarare incostituzionale l’art. 6 cit. In particolare, poiché nel caso di specie il rimborso del cliente finale deve ritenersi giuridicamente impossibile proprio per mancanza di efficacia orizzontale della Direttiva n. 2008/112/UE, non può che concludersi che lo stesso cliente è titolare di una azione diretta di rimborso nei confronti dello Stato.

Né può ritenersi che il rimborso diretto dell’acquirente presso lo Stato sia possibile solo nei casi di insolvenza del fornitore, la quale è solo una (“segnatamente”, dice la Corte di Giustizia), ma non l’unica, ipotesi in cui il rimborso dell’acquirente deve ritenersi impossibile. Lo stesso giudice unionale si premura infatti di precisare che resta ferma la possibilità di individuare anche altre fattispecie di tal fatta, nelle quali la impossibilità o difficoltà di accedere al rimborso devono valutarsi alla luce “dell’insieme del procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso” e secondo il principio di effettività (così la giurisprudenza comunitaria citata supra).

2.2. – Quanto alla seconda soluzione (risarcimento del danno), fin dalla Sentenza Francovich c. Repubblica italiana (CGUE, sent. 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C- 9/90), la Corte di Giustizia ha precisato che uno Stato membro è obbligato a risarcire i privati per violazione del diritto comunitario, ivi inclusa la violazione derivante dal mancato o inesatto recepimento delle direttive, ai sensi dell’art. 5 del TCE (dopo Lisbona, art. 4, par. 3 TUE). La norma, infatti, obbliga gli Stati ad “eliminare le conseguenze illecite di violazione del diritto comunitario”: un risultato da realizzare con i mezzi dell’ordinamento interno, riconoscendo ai singoli il diritto al risarcimento del danno in presenza di particolari condizioni (i.e. che la norma comunitaria violata sia diretta ad attribuire diritti in favore dei singoli, che la violazione sia grave e manifesta e che sussista il nesso di causalità diretta tra la violazione e il danno subito). Nella pronuncia, la Corte ha peraltro precisato che tale responsabilità risulta sensibilmente aggravata proprio dall’impossibilità concreta di far valere l’effetto diretto della direttiva non trasposta.

Nel caso del rimborso dell’addizionale, tutte le condizioni poste dalla menzionata sentenza Francovich (e approfonditi dalla giurisprudenza successiva) sembrano integrati, con conseguente diritto per l’acquirente di citare in giudizio lo Stato a titolo risarcitorio.

Da tutto quanto sin qui esposto, si evince che la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 6 del D.L. n. 511/1988 non pare l’unica strada per tutelare i diritti degli utenti in quanto gli stessi – a fronte di una Direttiva non (o mal) recepita – sono comunque titolari della facoltà di chiamare in causa, a vario titolo e in via diretta, lo Stato italiano. Da ciò potrebbe conseguire l’inammissibilità della questione rimessa dal Tribunale di Udine, non solo perché è consentita un’interpretazione del sistema normativo conforme a Costituzione ma anche perché, così interpretato il sistema, la questione prospettata dal Tribunale di Udine appare priva di rilevanza.

3. I profili sollevati dal Tribunale di Udine sono diversi da quelli evidenziati dal Collegio Arbitrale di Vicenza, ma i due procedimenti non sono privi di elementi di connessione.

L’eventuale accoglimento della questione devoluta dal Tribunale di Udine comporterebbe infatti la definitiva espunzione dall’ordinamento positivo interno della norma censurata e determinerebbe “in automatico” l’accoglimento di tutte le cause di rimborso azionate dai clienti finali e la diretta soccombenza degli operatori del settore, che dovrebbero subire i relativi costi giudiziali e sarebbero costretti a rivalersi poi nei confronti dell’Agenzia, nell’ambito del macchinoso meccanismo previsto dall’art. 14, comma 4 del d.lgs. n. 504/1995 – Testo unico accise (TUA).

Senonché, tale meccanismo è assolutamente sproporzionato ed irragionevole, come prospettato con ordinanza di rimessione proprio dal Collegio Arbitrale di Vicenza (si rinvia ancora una volta al precedente contributo su questo sito).

L’eventuale accoglimento della questione prospettata dal Tribunale di Udine renderebbe quindi ancora più manifesta l’irragionevolezza del sistema di rimborso disegnato dall’art. 14 del TUA: i fornitori sarebbero infatti esposti alla più che probabile soccombenza nei giudizi azionati dai clienti e, conseguentemente, a tutte le irragionevoli difficoltà per vedersi efficacemente ristorare dall’erario dell’onere del tributo restituito ai propri acquirenti e che per loro ha avuto solo natura passante in quanto già a suo tempo riversato allo Stato.

Considerando il legame molto stretto tra le due questioni, non è quindi da escludere che la Corte Costituzionale ricorra al secondo comma dell’art. 27 della l. n. 87/1953, a norma del quale la Corte, medesima, nell’ambito di un procedimento, “dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata”. Invero, le criticità della procedura di rimborso prevista dall’art. 14, comma 4 del TUA a carico del fornitore risulterebbero ancora più manifeste e irragionevoli a fronte della declaratoria della pacifica sussistenza del diritto al rimborso del cliente per illegittimità costituzionale dell’art. 6 del d.l. n. 511/1988, concretando tale statuizione proprio quel nesso di interdipendenza o stretta connessione idoneo a fondare, come si è visto, una pronuncia di illegittimità consequenziale.

4. Vale infine osservare che, attesa l’importanza anche sul piano sistemico delle questioni qui esaminate, laddove la Corte Costituzionale dubitasse della compatibilità dell’art. 6 cit. con la Direttiva n. 2008/112/UE, potrebbe ritenere opportuno disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

Infatti, la normativa italiana istitutiva delle addizionali alle accise non è mai è stata dichiarata illegittima dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, le cui sentenze interpretative richiamate nella pronuncia n. 27101/2019 della Corte di Cassazione originano da controversie tra Stato e privato e trattano delle normative estone e francese prive di tratti comuni alla addizionale accise che ci occupa.

La Corte di Cassazione è sempre partita dal presupposto che l’addizionale provinciale sia un’imposta indiretta ed ulteriore rispetto all’accisa e, perciò, necessitante di una finalità specifica, ulteriore e diversa rispetto a quella dell’accisa. Tuttavia, è possibile ricostruire l’addizionale come “sovraimposta”, e cioè come inasprimento di un’imposta esistente mediante applicazione di un’ulteriore aliquota percentuale sull’ammontare della stessa base imponibile: in quest’ottica, essa non ha dunque profili di autonomia (c.d. imposta figlia) e segue la disciplina dell’imposta cui si aggiunge (c.d. imposta madre), non essendo quindi richiesta alcuna indagine sul requisito della finalità specifica.

Da questa prospettiva, appare quindi più che opportuno interrogare direttamente la Corte di Giustizia sulla conformità dell’addizionale italiana alla Direttiva europea, al fine di dirimere definitivamente e con efficacia erga omnes la questione sottoposta al suo vaglio.

5. Molte sono quindi le problematiche che la Corte Costituzionale si trova ad esaminare. In ogni caso, e a prescindere dagli esiti dei procedimenti di costituzionalità, non può comunque negarsi che tutte le criticità evidenziate dai giudici remittenti dimostrano che il sistema di rimborso dell’addizionale è meritevole di una rimeditazione da parte del legislatore: sarà la Corte a valutare “salvare” tale sistema o – come è preferibile – indurre il legislatore a ridisegnarlo.

Ti può interessare anche: