27/06/2025

La fattispecie sub judice si sviluppa nell’ambito di un articolato sistema fraudolento volto alla produzione e circolazione di crediti fiscali fittizi, in particolare legati al c.d. “bonus facciate”, agevolazione introdotta dall’art. 121 del D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito in L. 17 luglio 2020, n. 77, e collocata nel più ampio quadro delle misure emergenziali a sostegno dell’edilizia. La vicenda ruota attorno alla condotta di alcuni soggetti – amministratori di diritto e di fatto di una società a responsabilità limitata – i quali, in concorso con i committenti, avrebbero predisposto ed emesso fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, e successivamente immesso i relativi crediti, evidentemente fittizi, nel canale telematico dell’Agenzia delle Entrate, attraverso la piattaforma “Cessione Crediti”.

Secondo quanto ricostruito nella sentenza n. 10400 del 17 marzo 2025, gli imputati avrebbero agito in concorso tra loroal fine di consentire a terzi l’evasione di imposta mediante l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti”, creando un sistema articolato che prevedeva tanto la falsificazione documentale, quanto la simulazione della realtà imprenditoriale della società coinvolta, rivelatasi priva di qualsiasi capacità organizzativa, economica e operativa. Come sottolineato dalla Corte, infatti, “la società risultava priva di una propria struttura logistico-amministrativa, di una propria forza lavoro e di una struttura economico-patrimoniale, tali da poter far fronte alla realizzazione dei lavori di edilizia di ingente valore”.

La questione principale che la Suprema Corte ha dovuto affrontare riguarda, in primo luogo, la configurabilità del reato di cui all’art. 8 del D.Lgs. 74/2000, in presenza di una condotta diretta non alla evasione diretta delle imposte, bensì alla creazione di crediti d’imposta fittizi. Secondo la ricostruzione accusatoria, infatti, le fatture non venivano emesse per sottrarre ricavi imponibili o per evadere l’IVA, bensì per consentire al destinatario – il committente – di ottenere un credito d’imposta mai maturato, poi ceduto o utilizzato in compensazione[1]. La Corte ha quindi dovuto interrogarsi se tale finalità, diversa da quella tradizionalmente associata all’art. 8 (evasione delle imposte sui redditi e dell’IVA), potesse comunque rientrare nell’ambito applicativo della norma. A tale proposito, nella propria pronuncia, il Collegio ha ribadito un orientamento già espresso da precedenti arresti giurisprudenziali, in particolare Cass. pen., sez. III, n. 42417/2019, secondo cui “il fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, comprende anche quello di consentire a terzi il riconoscimento di un inesistente credito di imposta”.

La Corte si è dunque confrontata con una nozione funzionale di evasione fiscale, ampliata alla generazione fittizia di crediti tributari, ritenendo che “al fine della sussistenza del reato di cui all’art. 8 D.Lgs. n. 74/2000 è sufficiente il fine di far conseguire a terzi il credito di imposta”, mentrenon è necessario che il credito venga poi effettivamente riconosciuto e accettato dall’Agenzia delle Entrate”. Tale interpretazione riflette un approccio sostanzialistico, incentrato sull’effettivo pericolo arrecato all’interesse fiscale pubblico, piuttosto che su formalismi legati alla ricezione o al riconoscimento del credito stesso.

Una seconda questione nodale ha riguardato la qualificazione giuridica delle comunicazioni telematiche trasmesse attraverso la “Piattaforma Cessione Crediti” dell’Agenzia delle Entrate, contenenti l’indicazione di crediti d’imposta maturati e oggetto di cessione. Il quesito che si poneva era se tali comunicazioni potessero essere ricondotte alla nozione di documenti per operazioni inesistenti ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 8 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e più specificamente, se potessero essere qualificate come “documenti aventi rilevanza fiscale” secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 1, lett. b), del medesimo decreto.

A tale proposito, la Corte ha effettivamente richiamato la previsione dell’art. 1, che include tra i documenti fiscalmente rilevanti non solo le fatture, ma anche i documenti aventi valore analogo in base alle disposizioni tributarie. Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto che nel caso di specie non fosse necessario operare tale equiparazione, posto che la condotta delittuosa risultava già perfezionata attraverso l’emissione della fattura per operazioni inesistenti, che costituiva di per sé il documento rilevante ai fini penali.

Come si legge testualmente nella motivazione della sentenza, “non è perciò necessario sostenere l’equivalenza della Comunicazione all’Agenzia alla fattura (n.d.r. documento analogo ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs. 74/2000) quando il fatto è stato consumato, come nel caso di specie, proprio mediante l’emissione della fattura stessa”. In altri termini, la trasmissione telematica ha avuto solo una funzione accessoria, rafforzativa rispetto alla già avvenuta consumazione del reato, ma non costitutiva della fattispecie. La comunicazione al sistema telematico, pur fiscalmente rilevante, non è stata considerata essenziale ai fini della realizzazione dell’illecito, che si è perfezionato con la redazione e l’emissione della fattura mendace.

La Suprema Corte ha poi dovuto affrontare in modo rigoroso il tema della responsabilità amministrativa della società a responsabilità limitata coinvolta nella frode, con riferimento alla disciplina dettata dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ed in particolare al nuovo art. 25 – quinquiesdecies, introdotto dall’art. 39, comma 2, del D.L. 26 ottobre 2019, n. 124 (convertito in L. 19 dicembre 2019, n. 157), al fine di sanzionare in via autonoma gli illeciti tributari commessi in ambito societario.

La Cassazione ha ritenuto pienamente integrata la responsabilità amministrativa dell’ente per il reato presupposto di cui all’art. 8 del D.Lgs. 74/2000, evidenziando come la società fosse priva di qualsiasi autonomia operativa, giuridicamente esistente ma materialmente priva di sostanza economica e organizzativa, ridotta a mero strumento funzionale alla realizzazione della frode fiscale. Come si legge nella motivazione, “la s.r.l. rappresentava una società ‘fantasma’ che, attraverso la predisposizione di documentazione falsa, utile ad attestare lavori in realtà mai eseguiti, nonché attraverso la simulazione di operazioni finanziarie, ha permesso, in concorso con i propri clienti – committenti, la generazione di crediti d’imposta fittizi”.

Sotto il profilo strutturale, difatti, viene accertato che “la società era in realtà priva di una propria struttura logistico – amministrativa, di una propria forza lavoro e di una struttura economica – patrimoniale”, così da risultare assolutamente inidonea all’effettiva esecuzione delle prestazioni edilizie oggetto delle fatture emesse, per un imponibile che superava i dodici milioni di euro in un periodo di appena tre mesi. In questa prospettiva, la società non solo partecipava formalmente all’operazione fraudolenta, ma risultava essere – in modo preordinato – creata o comunque gestita con il solo scopo di produrre documentazione fiscale fittizia utile all’attivazione indebita del credito d’imposta. La società “fantasma” avrebbe dunque agito quale mero veicolo per la generazione e commercializzazione di crediti fittizi. Ciò comporta che la sua stessa esistenza era funzionale alla realizzazione dell’illecito, ossia che l’ente non ha subito passivamente la condotta dei suoi amministratori, ma è stato strumento attivo, in quanto governato da soggetti apicali che agivano nel suo esclusivo interesse economico e operativo. In tal modo, risultano integrati tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa dell’ente ex D.Lgs. 231/2001: il reato presupposto tributario, accertato nei confronti dei legali rappresentanti; la qualifica apicale dei soggetti agenti, dotati del potere di rappresentanza e direzione; l’agire nell’interesse e a vantaggio dell’ente stesso, che acquisiva la titolarità dei crediti fittizi mediante la cessione da parte dei committenti, ottenendo un’utilità economica immediata.

A sostegno della propria decisione, gli Ermellini sottolineano come la società non si fosse dotata di alcun modello organizzativo idoneo a prevenire i reati, e come la stessa fosse stata gestita interamente per fini illeciti, con finalità fraudolente e con programmazione preordinata all’emissione seriale di fatture false. Non si trattava, dunque, di una società che ha “tollerato” condotte illecite dei propri dirigenti, ma di un ente ontologicamente illecito, la cui attività era integralmente orientata alla violazione sistematica delle norme tributarie.

Infine, la parte più complessa e controversa dell’intera vicenda giudiziaria risulta essere quella concernente il tema del sequestro preventivo, disposto dal Tribunale e poi impugnato dalla difesa, con particolare riferimento alla sua funzione e qualificazione giuridica. Il sequestro in questione, avente ad oggetto oltre 12 milioni di euro, era stato motivato dal giudice del merito come finalizzato ad impedire la circolazione e la commercializzazione di crediti fittizi, con evidente riferimento all’art. 321, comma 1, c.p.p., norma che disciplina il sequestro a fini cautelari. Tuttavia, il provvedimento era formalmente fondato sull’art. 321, comma 2, c.p.p., cioè sul sequestro finalizzato alla confisca del profitto del reato, come previsto anche dall’art. 12-bis del D.Lgs. 74/2000.

La Corte, a tal proposito, ha accolto il motivo di ricorso della società stessa, relativo al sequestro preventivo, rilevando che il decreto presentava profili di indeterminatezza e ambiguità quanto alla finalità perseguita, tali da inficiare la legittimità della misura. In particolare, i giudici di legittimità hanno osservato che “le ragioni del sequestro, così come indicate nel provvedimento genetico, si prestano ad una lettura non univoca, essendo più acconce a quelle di un sequestro impeditivo decretato ai fini del primo comma dell’art. 321 cod. proc. pen. che ai fini della confisca obbligatoria del profitto del reato ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 12-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 e 321, secondo comma, cod. proc. pen.

Secondo la Corte, la motivazione del provvedimento del giudice del riesame non chiariva se la richiesta cautelare fosse volta a ottenere una misura impeditiva o anticipatoria della confisca, limitandosi a ribadire genericamente il principio per cui “ogni provvedimento cautelare reale deve essere motivato sulle ragioni della anticipata ablazione del bene da confiscare”.

A ciò si aggiungeva una ulteriore criticità: la Corte ha ricordato che l’applicazione del sequestro preventivo, specie se finalizzato alla confisca ai sensi dell’art. 321, comma 2, c.p.p., richiede come necessario presupposto una specifica e chiara richiesta del pubblico ministero, che non può essere integrata d’ufficio dal giudice.

Nel caso di specie, è stato rilevato che il Tribunale del riesame non aveva chiarito quale fosse l’oggetto esatto della richiesta del P.M., né aveva esplicitato se e come il sequestro fosse stato disposto in coerenza con tale richiesta, generando così una carenza motivazionale non emendabile. Come chiarisce la sentenza: “il Tribunale, da questo punto di vista, a fronte della dedotta inesistenza della motivazione sulla specifica esigenza anticipatoria perseguita con il decreto di sequestro preventivo, non spiega quale fosse l’oggetto della domanda cautelare”.

Per queste ragioni, l’ordinanza impugnata è stata annullata, con rinvio al giudice del merito per un nuovo esame che tenga conto della corretta articolazione delle finalità cautelari indicate nella richiesta del pubblico ministero e della necessaria coerenza del decreto di sequestro con quanto richiesto.

Giova sottolineare, infine, come la sentenza in commento, pur intervenendo in relazione a un’ipotesi di indebita generazione di crediti d’imposta connessi al c.d. “bonus facciate”, si presti a una lettura sistematica ben più ampia, idonea a estendere i principi ivi affermati all’intera disciplina dei crediti d’imposta maturati in ambito edilizio, con particolare riferimento al Superbonus introdotto dagli artt. 119 e 121 del D.L. 19 maggio 2020, n. 34 (cd. Decreto Rilancio), convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77.

Entrambe le misure agevolative, difatti, condividono la medesima cornice applicativa dell’art. 121, D.L. n. 34/2020 che consente, in alternativa alla fruizione diretta della detrazione, la cessione del credito d’imposta ovvero lo sconto in fattura.

È pertanto evidente come, pur variando l’oggetto degli interventi edilizi, la struttura giuridico – fiscale dei due istituti risulti sostanzialmente sovrapponibile: in entrambi i casi, il beneficio fiscale trova fondamento nell’effettività della spesa sostenuta e documentata, e si realizza attraverso la formazione di un credito d’imposta cedibile e compensabile, la cui spettanza dipende dalla veridicità della documentazione prodotta (i.e. fatture, asseverazioni tecniche, comunicazioni telematiche).

Sotto il profilo penalistico, la pronuncia della Corte assume, dunque, rilievo generale: la condotta del soggetto che, mediante l’emissione di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, consenta la formazione e la successiva cessione di crediti d’imposta fittizi, integra il reato di cui all’art. 8 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, anche in assenza di utilizzo effettivo del credito o di monetizzazione da parte del beneficiario.

La Suprema Corte afferma, infatti, come poc’anzi riportato, che la mera emissione della documentazione mendace, se idonea a far sorgere un credito non spettante, è sufficiente a integrare il fatto tipico, indipendentemente dall’effettivo conseguimento del vantaggio fiscale da parte del beneficiario.

Tale impostazione risulta allora perfettamente applicabile anche ai crediti maturati nell’ambito del Superbonus e, più in generale, delle detrazioni edilizie con cessione, nei casi in cui la documentazione prodotta risulti fittizia o riferita a soggetti privi di effettiva capacità operativa.

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[1] Così, difatti, si legge nella sentenza in commento “In particolare, la ricorrente emetteva fatture per lavori mai eseguiti; tali fatture generavano, a favore dei singoli committenti, un credito di imposta che costoro cedevano all’ impresa come corrispettivo da quest’ultima direttamente scontato in fattura”.

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