24/07/2024

1.  Introduzione.

Il 28 giugno 2024 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.lgs. n. 87/2024 con il quale, in attuazione dell’art. 20 della L. delega n. 111/2023, è stata compiuta una revisione del sistema sanzionatorio tributario.

Tra le molteplici novità presenti nel corpus normativo, una delle più rilevanti – anche per gli effetti che è in grado di riverberare in ambito superbonus – risulta essere quella prevista dall’art. 1 con cui il legislatore è intervenuto sulla definizione di crediti inesistenti e non spettanti.

Il presente elaborato si prefissa l’obiettivo di ripercorrere gli orientamenti che hanno preceduto il decreto e, al contempo, di prospettare – con un taglio pratico – gli effetti che tale nuova normativa potrà esplicare nello specifico settore dei crediti Superbonus.

2. Origine del problema.

Com’è noto, il dibattito sulla effettiva portata della distinzione tra inesistenza e non spettanza del credito ha accompagnato la disciplina normativa fin dalle sue origini. Esso si basa sulla lettura combinata di due specifiche norme, l’articolo 1, comma 421, della L. n. 311/2004 e l’art. 27, comma 16 del D.L. n. 185/2008.

Con la prima delle due disposizioni il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento l’atto di recupero del credito, destinato a fornire all’Agenzia delle entrate uno specifico strumento per procedere alla riscossione dei crediti indebitamente utilizzati.

In un momento successivo è stato introdotto l’art. 27, comma 16 del D.L. n. 185/2008, il quale recitava:

“Salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per il reato previsto dall’articolo 10-quater, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, l’atto di cui all’articolo 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241D.Lgs. 09/07/1997, n. 241, Art. 17 – (Oggetto), deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo.”

Così prevedendo, il legislatore introduceva un termine di decadenza per l’Ufficio ben più ampio rispetto a quanto previsto dalla L. n. 311/2004, pari ad otto anni per gli atti riguardanti la “riscossione di crediti inesistenti”.

Da qui il dubbio se, con l’introduzione di tale fattispecie, il legislatore avesse voluto distinguere le due ipotesi e, nel particolare, se la seconda disposizione (i.e. l’art. 27 cit.) si riferisse esclusivamente alla categoria dei “crediti inesistenti” mentre la prima, più genericamente, ai “crediti indebitamente utilizzati”.

3. La Giurisprudenza di legittimità sul tema.

La distinzione a cui si è accennato in precedenza ha condotto la Cassazione a conclusioni difformi tra loro, creando così un perdurante contrasto giurisprudenziale in materia.

Tale situazione, infatti, era dovuta dalla contestuale presenza in seno alla giurisprudenza di legittimità da un lato, di un più risalente orientamento fermo nel non elevare l’inesistenza del credito ad una categoria diversa dalla non spettanza (Cass. n. 354/2021; Cass. n. 31859/2021; Cass. n. 25436/2022; Cass n. 31419/2022) e, dall’altro, di un indirizzo diametralmente opposto, teso a riconoscere tale differenziazione (Cass. n. 34444/2021; Cass. n. 34443/2021; Cass. n. 34445/2021; Cass. n. 5243/2023)[1].

Dal perdurante contrasto sopra esposto è scaturita la necessità di rinviare la questione alle Sezioni Unite della S.C., così da risolvere il dubbio interpretativo sulla questione.

Le Sezioni Unite, con le sentenze Cass. SS.UU. nn. 34419/2023 e 34452/2023, hanno accolto l’orientamento espresso tra le altre dalla pronuncia della Cass. n. 34444/2021, sposando la tesi interpretativa che tende a distinguere l’inesistenza di un credito dall’utilizzo in compensazione di un credito meramente non spettante.

In particolare, il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte chiarisce che:

“in tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, all’azione di accertamento dell’erario si applica il più lungo termine di otto anni, di cui all’art. 27, comma 16, D.L. n. 185 del 2008, quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza – anche alla luce dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, D.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal D.lgs. n. 158 del 2015 – allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter D.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis D.P.R. n. 633 del 1972; ove sussista il primo requisito ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l’attività di accertamento”.

Per giungere a tale principio, il Supremo Consesso è partito dalla considerazione per cui è lo stesso legislatore a dare una nozione di credito inesistente (contenuta nell’art. 13 co. 5 D.lgs. n. 471/1997) e di credito non spettante (contenuto invece nel co. 4 della medesima disposizione) tale da imporre una chiara distinzione tra le due fattispecie.

Non solo, anche valorizzando il mero dato intuitivo e di comune conoscenza, la nozione di inesistenza evoca, a detta dei Giudici di Legittimità, la sua non appartenenza alla realtà”, con ciò intendendosi che

lo specifico evento o circostanza che determina l’insorgere del credito non esiste o non si è mai realizzato. Da qui, allora, la conclusione della S.C. per cui le due categorie, dunque, appaiono strutturalmente distinte e, sul piano logico, alternative: il credito è inesistente oppure esiste ma non è spettante”.

Pare opportuno esaminare quanto precisato dalla S.C. in merito alle condizioni specifiche al ricorrere delle quali si può affermare di essere in presenza di un credito inesistente.

In merito a tale fattispecie, i Giudici di Legittimità hanno svolto un’argomentazione che porta a qualificare come “inesistente” esclusivamente il credito: i) che sia carente dei suoi presupposti costitutivi[2]; ii) la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54-bis d.P.R. 633/1972.

In particolare, sviluppando le argomentazioni già contenute in precedenti arresti di segno conforme, le SS.UU. della Corte di Cassazione, con le sentenze qui in commento, si sono soffermate sulle peculiari modalità che consentono di riscontrare la prima delle condizioni richieste (i.e. la mancanza del presupposto costitutivo del credito speso in compensazione).

Questa condizione, a detta della Corte, si verifica in due ipotesi, ovverosia quando:

  1. la fattispecie che fonda l’agevolazione o il credito d’imposta non è mai venuta ad esistenza ma, è stato realizzato un “simulacro” dei presupposti su cui si fonda la pretesa;
  2. la fattispecie è carente di un elemento costitutivo.

Tale è il caso, come chiarito nella stessa sentenza, di chi fruisce del credito R&S di cui all’art. 1 co. 280 e ss. L. n. 296/2006, nel caso in cui le attività di ricerca non siano mai state effettuate; ovvero, ancora e in materia IVA, la S.C. ha precisato che integra il primo presupposto il caso in cui un credito IVA speso in compensazione sia generato da operazione soggettivamente od oggettivamente inesistenti.

4. Le novelle legislative.

Dopo aver riepilogato le vicende giurisprudenziali che hanno accompagnato la materia, è il momento di vedere come il legislatore sia intervenuto sulla questione.

Anzitutto, è necessario premettere che tale intervento si deve alla formulazione della legge delega per la riforma fiscale (L. n. 111/2023) che, all’art. 20, lettera a), n. 5, prevede(va) l’introduzione in conformità agli orientamenti giurisprudenziali” di “una più rigorosa distinzione normativa anche sanzionatoria tra le fattispecie di compensazione indebita di crediti di imposta non spettanti e inesistenti”.

A ciò ha fatto seguito, dunque, la pubblicazione del D.lgs. n. 87/2024 in Gazzetta Ufficiale, il quale, all’art. 1 detta definitivamente le nozioni di credito inesistente e non spettante.

Occorre osservare che le definizioni di crediti inesistenti e non spettanti sono state inserite dal legislatore delegato nel D.lgs. n. 74/2000 in cui all’art. 1, co. 1, compaiono, oggi, le nuove lettere g-quater e g-quinquies.

Segnatamente, ai sensi della lett. g-quater, per credito inesistente si fa riferimento ai:

“1) crediti per i quali mancano, in tutto o in parte, i requisiti oggettivi o soggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento;

2) crediti per i quali i requisiti oggettivi e soggettivi di cui al numero 1) sono oggetto di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici;”.

Quanto, invece, ai crediti non spettanti, la definizione è contenuta nella lettera g-quinquies, la quale prevede che siano tali:

1) i crediti fruiti in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quelli fruiti in misura superiore a quella stabilita dalle norme di riferimento;

2) i crediti che, pur in presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento, sono fondati su fatti non rientranti nella disciplina attributiva del credito per difetto di ulteriori elementi o particolari qualità richiesti ai fini del riconoscimento del credito;

3) i crediti utilizzati in difetto dei prescritti adempimenti amministrativi espressamente previsti a pena di decadenza.»”.

Tanto chiarito, pare opportuno effettuare alcune considerazioni sulla novella introdotta nell’ordinamento e sui relativi riflessi pratici.

La prima di esse è di carattere esclusivamente sistematico e si riferisce al fatto che l’introduzione delle sopra menzionate definizioni all’interno del D.lgs. n. 74/2000 si pone come elemento di assoluta novità rispetto al passato, in quanto nella situazione preesistente le definizioni potevano essere ricavate esclusivamente dalle norme dettate in materia amministrativa e non anche penale.

Ad oggi, come si è avuto modo di vedere, la situazione muta radicalmente, tanto che con ulteriore novella il legislatore ha sostituito il precedente art. 13, co. 4, D.lgs. n. 471/1997 prevedendo che si considerano inesistenti ovvero non spettanti i crediti “rispettivamente previsti dall’art. 1, co. 1, lettere g-quater e g-quinquies del D.lgs. n. 74/2000”.

Passando ora alle ulteriori considerazioni, è il caso di esaminare le novità intervenute sul tema rispetto alla Sentenza della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite.

A tal proposito, si nota immediatamente il venir meno – nell’individuazione di ciò che deve essere considerato come credito inesistente – del requisito dell’impossibilità di riscontrare l’indebita compensazione del credito dai controlli formali di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54-bis d.P.R. 633/1972.

Con la novella di cui al D. lgs. n. 87/24, infatti, i due indici che emergono sono esclusivamente: la mancanza dei requisiti oggettivi e soggettivi specificatamente individuati dalla normativa; la rappresentazione fraudolenta compiuta dal contribuente.

A ben vedere, dunque, il legislatore delegato ha strutturato la nuova definizione facendo propri esclusivamente gli indici che la S.C. aveva individuato per la sussistenza del requisito sulla mancanza dei presupposti costitutivi, eliminando in radice, invece, l’ulteriore requisito su cui si erano soffermati gli Ermellini relativo alla riscontrabilità tramite i controlli formali.

Una simile scelta, allora, potrebbe far sorgere un dubbio sulla compatibilità di quanto previsto nel decreto delegato rispetto a quanto previsto dal principio di delega; quest’ultimo, infatti, prescrive di adottare “una più rigorosa distinzione normativa” coerentemente con quanto previsto dalla giurisprudenza di legittimità (art. 20 della L. n. 111/2023). Viene da chiedersi se non aver previsto il parametro della rilevabilità mediante i controlli formali quale elemento per distinguere la non spettanza dall’inesistenza sia stata una scelta coerente con il contenuto della delega.

La risposta, invero, pare essere negativa, giacché l’elemento dei riscontri tramite i controlli formali trovava la propria ratio nel giustificare un termine di decadenza dell’Ufficio più ampio e, inoltre, costituiva un buon criterio (oggettivo) di distinzione tra le due fattispecie.

Al di là della considerazione sopra riportata e scendendo nel dettaglio sui requisiti previsti per poter considerare un credito come inesistente, si potrebbe desumere dalla norma che questo sia il caso in cui il soggetto passivo abbia, in qualche modo, “inventato” il credito.

Ciò, infatti, si nota considerando che, oltre alla mancanza dei requisiti previsti dalla norma istitutiva del credito, il legislatore prevede anche l’elemento della fraudolenza del comportamento tenuto dall’agente.

Tuttavia, l’affermazione di cui sopra parrebbe essere solamente in parte corretta.

A tal proposito, infatti, se ben si guarda alla disposizione si comprende come il credito inesistente possa essere anche quello fruito senza alcun intento fraudolento, ma che difetti esclusivamente dei requisiti previsti dalla normativa. D’altronde, la lettera g-quater non prevede che i due requisiti siano cumulativi tra loro, bensì ne ritiene sufficiente la sussistenza alternativa.

Ad avvalorare una simile interpretazione si pone peraltro anche la modifica effettuata dal legislatore all’art. 13 del D.lgs. n. 471/1997 lett. 5-bis con la quale è stato previsto che l’utilizzo in compensazione di un credito inesistente generato da un comportamento fraudolento comporta l’aumento della sanzione pecuniaria dalla metà al doppio del credito.

Alla luce di ciò, pertanto, sembrerebbe corretto ritenere che, certamente, laddove si riscontri un intento fraudolento il credito debba considerarsi inesistente; tuttavia, tale inesistenza è una fattispecie più grave, in virtù della citata aggravante, rispetto all’inesistenza derivante dal mancato rispetto dei requisiti previsti dalla normativa di riferimento.

Ne consegue che il legislatore delegato, nell’assolvere il compito impartitogli dalla legge delega, abbia dato vita non già e solo ad una differenziazione tra credito inesistente e non spettante, ma anche ad una differenziazione all’interno del credito inesistente, creando così tre categorie di crediti indebitamente utilizzati (crediti inesistenti fraudolenti; crediti inesistenti poiché non coerenti con la normativa di riferimento; crediti non spettanti)[3].

Prendendo le mosse dalla possibile tripartizione creata dal legislatore delegato, sembra che la fattispecie più problematica sia quella concernente la distinzione che intercorre tra il credito inesistente poiché non rispettoso della normativa di riferimento e il credito non spettante.

A tal proposito, non può che notarsi come la modifica terminologica in parola non sia idonea a porre fine ai dubbi interpretativi evidenziati da tempo dalla giurisprudenza di legittimità, ma, al contrario, possa continuare a comportare non irrilevanti problemi per l’interprete.

Se è chiaro che la fruizione di un credito in eccedenza rispetto a quanto dovuto, nonché la mancanza di adempimenti normativi prescritti a pena di decadenza, si traduce nella non spettanza del credito, alcuni dubbi si possono porre nell’accertamento da compiere circa l’altra e distinta condizione.

Infatti, sotto questo punto di vista, il confine tra l’inesistenza e la non spettanza del credito risulta essere particolarmente labile a causa della formulazione letterale; formulazione che, se con riferimento ai crediti inesistenti fa riferimento alla mancanza dei requisiti oggettivi o soggettivi, per i crediti non spettanti la novella legislativa utilizza la locuzione “difetti di specifici elementi o particolari qualità[4].

Non riempendo di contenuto tale espressione e, in assenza di ulteriori specificazioni sul proprio significato, si presenta in maniera non indifferente la criticità di individuare quando si è in presenza di elementi che caratterizzano l’una o l’altra fattispecie.

Sempre sul tema, è interessante notare come il legislatore delegato abbia sentito la necessità di chiarire che i requisiti soggettivi od oggettivi che devono mancare per la configurabilità dell’inesistenza sono quelli previsti dalla normativa di rifermento.

Se è vero che astrattamente questa precisazione potrebbe apparire scontata, in realtà è un’indicazione che per taluni crediti appare essere estremamente importante. Si pensi ad esempio alla nota problematica sorta in tema di credito Ricerca e sviluppo di cui all’art. 3 del D.L. n. 145/2013, dove la prassi degli Uffici dell’Amministrazione finanziaria spesse volte contestava l’inesistenza del credito alla luce di quanto previsto nel Manuale di Frascati.

Volendo trovare una possibile soluzione, sembrerebbe corretto interpretare la disposizione nel senso che l’inesistenza del credito – al di fuori delle ipotesi dell’intento fraudolento – si àncori alla mancanza di requisiti oggettivi o soggettivi; requisiti questi ultimi che sono quelli previsti dalla normativa istitutiva del credito e che, proprio per la loro fonte, si distinguono dal difetto di specifici elementi o particolari qualità richiesti per i crediti non spettanti.

Così argomentando pertanto, la distinzione che si è posta tra requisiti oggettivi o soggettivi e difetti di specifici elementi o particolari qualità si individuerebbe non già sotto il profilo “sostanziale”, bensì in relazione alla circostanza “formale” per cui un dato elemento sia o meno indicato nella “disciplina normativa di riferimento”. Diversamente, ove un requisito sia richiesto in un documento di prassi (si pensi al noto esempio del Manuale di Frascati), lo stesso non potrebbe mai assurgere ad elemento discriminante rispetto all’esistenza del credito.

Se ciò fosse corretto, tuttavia, la normativa de qua sembrerebbe essere, sì, perfettamente aderente alla disciplina del credito R&S, ma non anche a tutte le altre tipologie di crediti di imposta.

In altre parole, nel caso del credito R&S è facile concludere che laddove difetti di requisiti previsti dalla norma di cui all’art. 3 D.L. n. 145/2013, esso sarà inesistente; laddove, invece, dovesse mancare uno degli elementi “extra-normativi” previsti dal Manuale di Frascati – si pensi all’interpretazione ivi prevista del concetto di “novità” – il credito sarà non spettante.

In conclusione, tirando le fila del discorso, pare corretto sostenere che la novella in questione sia senza dubbio da accogliere con favore laddove, recependo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sulla necessità di distinguere le due fattispecie (sposata anche dalle SS.UU.), costituisce senza dubbio un passo in avanti rispetto all’incertezza che si era creata sul tema[5].

Tuttavia, a fronte di questo non può che notarsi come alcune criticità siano destinate comunque a rimanere.

Su tutte, forse, quella più rilevante potrebbe essere che il legislatore ha strutturato la normativa in commento avendo in mente non già la generalità dei crediti d’imposta, bensì il già menzionato credito Ricerca e Sviluppo.

Così facendo, tuttavia, si perdono le caratteristiche della generalità ed astrattezza proprie di qualsiasi norma, comportando un dispendioso lavoro da compiere in via interpretativa e foriero di dubbi applicativi.

In sostanza, ciò che esce fuori da questa riforma è senz’altro il chiarimento che un credito “inventato” dia luogo ad un credito inesistente; d’altra parte, però, non può giungersi alle medesime conclusioni se il perimetro cui si indaga riguarda la distinzione tra le altre due categorie previste, ovverosia l’inesistenza quale mancanza di requisiti e la non spettanza quale difetto di particolari qualità.

Viene da chiedersi, allora, se il principale obiettivo prefissato dal Parlamento con la legge delega – ovverosia chiarire la distinzione tra inesistenza e non spettanza – sia stato attuato concretamente dal Governo.

In altri termini, una soluzione più adatta e semplice poteva essere, a parere di chi scrive, individuare in via residuale le ipotesi di non spettanza, ancorando l’esame esclusivamente sulla condotta fraudolenta dell’agente ed eliminando così la difficile distinzione tra requisiti oggettivi o soggettivi e specifici elementi o particolari qualità.

5. Focus sui bonus edilizi.

Dopo aver riepilogato le questioni che precedono, è ora il caso di calare il tutto nel caso in cui il credito oggetto di recupero derivi da interventi di efficientamento energetico ovvero di miglioramento del rischio sismico, come previsti dall’art. 119 del D.L. n. 34/2020.

Proprio in virtù delle considerazioni riportate nel precedente paragrafo, appare di notevole difficoltà rispondere all’interrogativo sul quando, nel caso del Superbonus, si possa considerare il credito inesistente ovvero non spettante.

5.1.      Procedendo con ordine, si pensi al caso in cui il credito generato sia il frutto di un comportamento artificioso del contribuente, volto con intento fraudolento a far sorgere il credito senza, ad esempio, aver mai eseguito lo svolgimento dei lavori.

In tal caso, invero, la conclusione appare assai semplice, il credito non potrà che essere considerato come inesistente ai sensi della lett. 1) lett. g-quater dell’art. 1 D.lgs. n. 74/2000.

È evidente, infatti, che nei casi in cui si celi un intento fraudolento, anche alla luce delle osservazioni effettuate nel precedente paragrafo, l’individuazione del genus di appartenenza si semplifica notevolmente.

Tuttavia, se tanto è vero, la questione potrebbe diventare meno agevole se si affrontano altre casistiche.

5.2. È il caso, ad esempio, in cui sia presente un vizio di carattere amministrativo quale quello dell’indicazione di un errato codice fiscale nella comunicazione da inviare all’Agenzia delle entrate.

In una fattispecie analoga a quella sopra descritta, l’Agenzia, tramite la risposta ad interpello n. 348/2023, era giunta ad affermare che in questi contesti il credito dovesse considerarsi come non spettante. La non spettanza in questione veniva giustificata dall’Ufficio sulla base del fatto che il credito era considerabile “reale” a tutti gli effetti poiché difettava qualsiasi elemento riconducibile alla sua falsità e, d’altra parte, perché l’errore in tal modo commesso poteva essere rinvenuto facilmente dall’A.F. tramite i controlli di “congruenza e regolarità” che rivestono una funzione analoga ai controlli automatizzati previsti nel d.P.R. n. 600/1973.

Alla luce delle novità normative, tuttavia, si è avuto modo di chiarire che quest’ultimo elemento (i.e. la rinvenibilità dell’“errore” tramite i controlli formali) è venuto meno. Pertanto, si pone il dubbio se la conclusione a cui giungere sia, ad oggi, la medesima di quella adottata dall’Agenzia nell’interpello n. 348/2023.

Sul tema si potrebbe escludere – anche sulla base della nuova formulazione – che il credito in parola possa essere ricondotto all’interno del canone di fraudolenza, non rientrando così nell’applicazione del n. 1) lett. g-quater dell’art. 1 D.lgs. n. 74/2000.

D’altro lato, però, se si volge lo sguardo all’ulteriore ipotesi che configura il credito come inesistente, ovverosia il mancato rispetto dei requisiti oggettivi e soggettivi della normativa di riferimento, non si è in grado di offrire una soluzione altrettanto certa.

In altre parole, ci si chiede se l’errata indicazione del codice fiscale corretto possa integrare il difetto di specifici requisiti (comportando così l’inesistenza del credito) ovvero il difetto di specifici elementi o particolari qualità (configurando così l’ipotesi della non spettanza).

In conclusione, il caso appena riportato sembra essere un buon esempio per far comprendere al lettore quelle che possono essere le difficoltà interpretative a cui si è fatto riferimento in precedenza.

5.3. Una ulteriore fattispecie che pare destare dubbi interpretativi attiene all’ipotesi in cui il soggetto abbia beneficiato di un credito maggiore rispetto a quanto previsto dalla normativa.

Tale potrebbe essere il caso di chi, non consapevole della modifica apportata dal legislatore alle percentuali da applicare all’importo dei lavori, abbia applicato la disciplina previgente e non più in vigore.

Il dubbio, infatti, sorge poiché in una simile situazione il contribuente potrebbe aver contemporaneamente integrato l’ipotesi di inesistenza e di non spettanza del credito; segnatamente, da un lato, non ha rispettato un requisito che è previsto nella normativa di riferimento (ed in quanto tale rientrante nella definizione di inesistenza del credito) rappresentato dalla corretta indicazione della percentuale di sconto applicata in fattura e, ovviamente, dall’esatta individuazione della misura del credito maturato, dall’altro, è astrattamente idoneo ad essere ricompreso nell’ipotesi prevista dalla lett. 1 lett. g-quinquies poiché ha fruito del credito “in misura superiore a quella stabilita dalle norme di riferimento”.

Dinnanzi a tali ipotesi, fermo restando il dubbio di cui sopra, si è più propensi a sostenere che si rientri nella fattispecie della non spettanza.

Ciò, infatti, si giustificherebbe alla luce del fatto che la percentuale di determinazione del credito non è considerabile propriamente come un vero “requisito” che la norma di riferimento impone, non attenendo quest’ultimo ad elementi riguardanti il soggetto o l’oggetto dell’attività svolta.

La questione riportata non costituisce un unicum nelle ipotesi in cui si riscontrano difficoltà nel classificare il credito nell’una o nell’altra categoria. Di esempi sul tema potrebbero farsene diversi, quali cosa debba succedere a fronte di un importo della comunicazione superiore all’asseverazione, ovvero, ancora, cosa succede se al termine dei lavori l’immobile non abbia ottenuto il doppio salto di classe energetica.

Tutti dubbi a cui, probabilmente, le modifiche apportate dal legislatore, per quanto siano comunque un miglioramento del previgente stato dell’arte, non sono idonee a dare soluzione.

La quantità di crediti d’imposta presenti nel nostro ordinamento, forse, avrebbe suggerito al legislatore di procedere nella strutturazione della norma in termini di maggiore astrattezza poiché le differenze strutturali rinvenibili nell’uno (Ricerca e sviluppo) o nell’altro caso (Superbonus) potrebbero condurre all’impossibilità di applicare la medesima disciplina a situazioni tra loro analoghe.

___________________________________

[1] Per un approfondimento sulla situazione giurisprudenziale ante pronuncia delle SS.UU. si v. Campanella, Federica “La rilevanza della differenziazione tra ‘crediti inesistenti’ e ‘crediti non spettanti’ ai fini procedimentali e sanzionatori, in attesa delle Sezioni Unite della Cassazione” in Rivista telematica di diritto tributario n. 1/2023, pp. 273-283.

[2] Sull’analisi del “presupposto costitutivo” si v. Renda, Alberto “La mancanza del presupposto costitutivo come discrimen tra crediti non spettanti e inesistenti [nota a Sent.: Cass SS.UU. n. 34419/2023]” in GT, Rivista di Giurisprudenza Tributaria n. 2/2024, pp. 114-120.

[3] Sul punto si veda l’audizione sullo schema di decreto legislativo recante la revisione del sistema sanzionatorio tributario (A. G. 144) della Prof.ssa Livia Salvini.

[4] Sul punto si vedano le audizioni sullo schema di decreto legislativo recante la revisione del sistema sanzionatorio tributario (A. G. 144) della Prof.ssa Livia Salvini e del Prof. Andrea Giovanardi cui, pur riferendosi allo schema di decreto precedente all’ultima revisione, già ponevano l’accento sulla difficoltà di individuare una linea di confine tra i crediti inesistenti e non spettanti in virtù della formulazione letterale.

[5] Sul tema cfr. Giovanardi, Andrea “Crediti d’imposta non spettanti e inesistenti. Qualche passo in avanti c’è, ma si poteva fare di più!” in Quotidiano IPSOA del 28 giugno 2024.

Ti può interessare anche: