Il riconoscimento della qualifica di “reddito agrario” implica una rigorosa aderenza ai presupposti definiti dagli artt. 32 del TUIR e 2135 c.c. Ma cosa accade quando un’impresa agricola percepisce proventi derivanti da un accordo con un’impresa industriale finalizzato alla valorizzazione energetica del proprio processo produttivo?
La Corte di Cassazione[1] è stata chiamata a pronunciarsi proprio su questo tema, stabilendo se i ricavi riconosciuti a un’impresa agricola per l’utilizzo di energia termica ceduta da una centrale termoelettrica – ai fini dell’ottenimento di certificati verdi – potessero o meno essere considerati reddito agrario o attività connessa.
Il contenzioso origina da una verifica fiscale avviata nei confronti di una società agricola che gestiva serre adiacenti a una centrale termoelettrica. In base a un accordo originario stipulato nel 2004 – inizialmente con una società capogruppo e poi formalizzato con la partecipata agricola – era previsto che l’impianto industriale cedesse energia termica di scarto prodotta nel ciclo della cogenerazione, da utilizzare per il riscaldamento delle serre.
Tale utilizzo permetteva alla centrale di ottenere il riconoscimento della qualifica di impianto di cogenerazione ad alta efficienza, e con essa il diritto ai certificati verdi, ossia titoli incentivanti rilasciati dal Gestore dei servizi energetici (GSE) per premiare la produzione combinata di energia elettrica e calore. In forza degli accordi, la società agricola riceveva una quota di questi certificati: il 70% del loro valore nei primi quattro anni e il 50% nei successivi quattro, in proporzione all’energia termica effettivamente utilizzata nelle proprie strutture.
L’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che tale rapporto contrattuale fosse di natura sinallagmatica, ossia fondato su un corrispettivo in cambio di una prestazione resa. Secondo l’Ufficio, i proventi derivanti dall’accordo con la centrale non erano in alcun modo ricollegabili a un’attività agricola, ma integravano reddito d’impresa, con conseguente assoggettamento a imposizione IRES, IVA e IRAP ordinaria per gli anni 2010–2013. Veniva inoltre evidenziato come, dai bilanci, emergesse una chiara prevalenza dei ricavi derivanti da tale accordo rispetto a quelli della coltivazione in senso stretto.
La società agricola ha impugnato gli avvisi sostenendo che:
- l’attività agricola restava prevalente e genuina;
- l’impiego dell’energia di scarto era funzionale alla produzione agricola in serra;
- non vi era alcuna prestazione di servizi, ma piuttosto una collaborazione passiva a un meccanismo premiale previsto dalla normativa ambientale.
In primo grado, la CTP ha accolto integralmente il ricorso, ritenendo che l’utilizzo dell’energia fosse un aspetto strumentale e coerente con la coltivazione in serra, e che i ricavi percepiti non costituissero il corrispettivo di un servizio, bensì una componente economica accessoria, assimilabile a un contributo.
In secondo grado, la Corte di giustizia tributaria ha riformato parzialmente la decisione. Ha riconosciuto che la società contribuente avesse, in effetti, collaborato attivamente con la centrale industriale, fornendo un apporto utile al raggiungimento dell’efficienza energetica richiesta per l’accesso ai certificati verdi. Ha quindi qualificato l’attività come connessa, ai sensi dell’art. 56-bis, comma 3, del TUIR, rideterminando l’IRES dovuta, ma mantenendo l’aliquota IRAP agricola.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, escludendo sia la natura agraria dei proventi sia l’applicabilità dell’art. 56-bis, comma 3, TUIR[2]. Secondo la Corte:
- l’attività agricola, per essere qualificata come tale, deve fondarsi sulla cura e lo sviluppo di un ciclo biologico (art. 2135 c.c.);
- la coltivazione in serra, se svolta nei limiti normativi (es. rapporto tra superficie coperta e terreno), rientra nell’ambito agricolo;
- tuttavia, i ricavi derivanti dai certificati verdi non erano frutto dell’attività agricola, bensì di un accordo commerciale volto a generare vantaggi per un impianto industriale;
- l’impresa agricola non ha prodotto, trasformato o commercializzato prodotti della terra in misura prevalente, ma ha messo a disposizione le proprie serre per consentire alla centrale industriale di accedere al regime incentivante.
In particolare, la Corte ha escluso che si trattasse di un’attività “connessa” ai sensi del terzo comma dell’art. 2135 c.c., poiché mancava sia il requisito soggettivo (esercizio da parte dell’imprenditore agricolo a vantaggio della propria produzione), sia quello oggettivo (utilizzo prevalente di risorse aziendali in funzione della produzione agricola).
I giudici hanno evidenziato che, in realtà, l’attività agricola risultava strumentale a un obiettivo industriale: quello di integrare il ciclo produttivo della centrale e incrementarne i benefici fiscali. Il confronto tra i ricavi agricoli e quelli legati all’accordo ha confermato il carattere secondario e accessorio della coltivazione, escludendo ogni possibilità di applicare il regime agevolato.
La sentenza offre una lettura rigorosa del concetto di attività agricola e delle sue connessioni. Per la Cassazione, l’agricoltura non può dunque essere piegata a logiche commerciali prevalenti, pena la perdita della qualificazione fiscale di reddito agrario. I proventi derivanti da collaborazioni industriali, se non radicati nella produzione o trasformazione del fondo, non possono beneficiare del regime agricolo, anche se si inseriscono in un contesto formalmente legato all’agricoltura.
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[1] Cass. civ., Sez. V, Sent., del 18/02/2025, n. 4130.
[2] “Per le attività dirette alla fornitura di servizi di cui al terzo comma dell’articolo 2135 del codice civile, il reddito è determinato applicando all’ammontare dei corrispettivi delle operazioni registrate o soggette a registrazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, conseguiti con tali attività, il coefficiente di redditività del 25 per cento.”